ANGELO MARIA RIPELLINO – Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento – Einaudi
“Ogni spettacolo è un castello di sabbia, un’effimera cattedrale che, col passare degli anni, perde i contorni, tremola, si assottiglia nell’acqua della memoria. Ripensando ai maestosi edifici-spettacoli costruiti da grandi registi, vien voglia di chiedere, come nelle danze macabre del Barocco: dove sei, Mejerchòl’d? dove sei, Stanislavskij? Che resta, se non uno stridulo “cliquetis” di parole? Restano scheletri di partiture, stinte fotografie, lingue ingiallite di ritagli, e testimonianze (non sempre attendibili)”.
Si stenta a credere che un libro simile possa essere stato scritto, perché quello che si propone di fare – e che in effetti fa – sembrerebbe un compito impossibile: richiamare in vita fantasmi dimenticati, ridare loro spessore e visibilità per metterli a disposizione della conoscenza e della ammirazione delle presenti e future generazioni. Un libro simile richiede l’opera di uno studioso competente, capace di andare a scovare le fonti più adatte, ma anche appassionato, in qualche modo in sintonia quanto a intelligenza e sensibilità con il suo oggetto di studio e, non ultimo, dotato di uno stile che sappia trasformare il saggio in opera letteraria. Insomma questo libro è l’esito felice di un incontro perfetto. Ripellino si propone di indagare, anzi di riesumare, l’essenza del teatro russo dei primi trent’anni del Novecento, cioè di una stagione felice, “epoca d’oro dell’arte del mettere in scena”, accettando di affrontare l’arduo compito di dare conto dell’effimero, di ciò che, frutto di cultura, creatività e ingegno, è però destinato a durare per un tempo limitato e circoscritto dal numero delle rappresentazioni, e per quello aleatorio, legato alla memoria degli spettatori e per questo destinato a ridursi fatalmente.
L’autore celebra in questo libro, consegnandolo alla memoria collettiva, il patrimonio di inestimabile valore rappresentato dall’opera dei grandi maestri della regia del teatro russo e lo fa ricostruendo, per mostrarle a noi, le “cattedrali sfarzose e lucenti” dei loro spettacoli. Leggendolo si ha l’impressione di penetrare in una sorta di caleidoscopio artistico, dove si incontrano e si fondono in combinazioni imprevedibili istanze espressive, interpretative ed estetiche. Trattandosi di teatro, ciò è in parte prevedibile, ma Ripellino sfrutta il carattere polisemico del suo oggetto di studio e lo fa lievitare all’ennesima potenza. Perché si occupa innanzitutto di testi teatrali, di autori che hanno scritto per il teatro opere che molti lettori conoscono per il loro aspetto letterario, avendone tratto, leggendole, una privata messa in scena mentale; si occupa del modo in cui grandi registi le hanno interpretate facendole interagire con la propria cultura, formazione e impulso creativo; rende conto del peculiare momento storico e della temperie sociale che fanno loro da contorno; si immerge nello spirito che di volta in volta guida le scelte dello sceneggiatore, ne svela i prodigi, i trucchi e le trovate e, infine, dispensa al lettore il frutto di cinque anni di ricerche di materiali dispersi, un lavoro rigoroso, certosino e straripante di informazioni, ma anche caldo e frizzante, estremamente ricco di partecipazione affettiva. Perché “ogni rievocazione trapassa in racconto, ogni discorso sugli altri è sempre un diario truccato. A uno scrittore di storie lontane si chiede di comportarsi come un freddo registratore meccanico. E invece egli si appassiona dei suoi personaggi, ne compiange la sorte”.
Entrando in questo libro si resta invischiati in una specie di incantesimo, si soggiace di buon grado ai trucchi e alle diavolerie che Ripellino è così bravo a rievocare e a sciorinare davanti agli occhi del lettore, si sta al gioco, ben sapendo che il trucco è la condizione per giungere all’anima del teatro, connaturata alla “assurda duplicità della nostra esistenza” e che, come ben sapeva Pessoa, l’attore, come il poeta, finge il dolore che davvero sente. I personaggi principali di questo libro sono i grandi registi russi Mejerchòl’d, Tairov, Stanislàvskij, Vachtàngov e il tono con cui l’autore parla di loro e delle loro “effimere cattedrali” sfiora a tratti l’agiografia, perché, come egli stesso afferma, è il clima del teatro a donare loro qualcosa di taumaturgico, che ingrandisce nella distanza del tempo, “non a caso, nelle antiche canzoni di gesta russe […] i pagliacci hanno aureola di santi”.
D’altra parte di qualche particolare tipo di potere o malìa dovevano essere dotati per riuscire a far convergere nel momento irripetibile di una rappresentazione l’anima di un autore, piegare al proprio volere il talento di un attore, sollecitare e guidare il guizzo estroso di uno sceneggiatore e, dalla combinazione di tanti suggestivi elementi riuscire a creare qualcosa di nuovo e di unico, dare vita a quell’arte scenica capace di entusiasmare lo spettatore, ma anche di trasformarlo, almeno per un poco, e non solo interiormente: “Le donne – afferma Blok – tornano dai teatri eccitate e più belle, una nota zigana”. L’arte scenica diventa dunque pretesto per una comunione di sinergie e così anche le minuzie del testo si ingigantiscono e al pubblico sembra che tutto venga offerto sotto una lente di ingrandimento e che sia possibile, in un momento fuori dal tempo, penetrare fino in fondo il senso di una tragedia, ma anche del suo opposto, di una arlecchinata. Questa è la materia che Ripellino si trova tra le mani, e che tratta con sovrabbondanza di fonti e testimonianze, con la sua solita esuberanza linguistica, trasmettendo al lettore – ancora di più al lettore appassionato di letteratura russa – insieme ad una sorta di vertigine per la presenza simultanea di tanti mostri sacri, un entusiasmo gioioso perché, come diceva il grande Mejerchòl’d, “la creazione è sempre gioia. L’attore che recita Amleto morente o Boris Godunòv in agonia deve vibrare di gioia. L’empito artistico gli fornirà quel voltaggio interiore, quella tensione, che faranno risplendere tutte le sue tinte”.