MARIO BENEDETTI – La tregua – nottetempo
“Poi, all’improvviso, ho avuto coscienza che quel momento, quel frammento di quotidianità, era il grado massimo del benessere, la Felicità. Mai ero stato tanto pienamente felice come in quel momento, tuttavia avevo la dolorosa sensazione che mai più lo sarei stato, almeno con quella forza, con quell’intensità. L’apice è così, esattamente così. Come se non bastasse, sono certo che l’apice duri solo un secondo, un breve istante, la durata di un lampo, e non si ha diritto a proroghe”.
Quello che leggiamo in queste pagine è il diario di un anno, di un lungo e brevissimo anno, un tempo su cui l’amore ha impresso il suo sigillo, che è insieme medaglia e ferita, segno distintivo di straordinaria eccezionalità e dolore che scava nella carne e che rende miracolosamente anche l’anima un organo vivo e corporeo che respira e palpita, soffre e sanguina. Il diario di un ultimo amore, uno di quelli che “più degli altri strazia”, perché “lo va nutrendo crudele il ricordare” e, ancora di più, forse, la lucida consapevolezza della sua irripetibilità, e non ha importanza se questa è meramente legata allo scorrere del tempo, al suo farsi giorno per giorno più breve, o alla semplice convinzione che nella quotidianità l’evento miracoloso, quando è veramente tale, quando sollecita il tempo e agisce come intensificatore di attimi, se accade, è per sua natura unico.
E’ il diario di un tempo forte quello che Benedetti traccia pagina dopo pagina, della sua lenta parabola ascendente, timorosa, riluttante, incredula, sospettosa, finalmente arresa, e della sua brusca discesa, del suo ritorno all’opacità del tempo debole e inconsistente, il diario che scandisce i passi lievi dell’incanto e la brusca caduta nel disincanto. Una costruzione che, raggiunto il suo apice, crolla, lasciando al suo posto il vuoto. Un tempo estratto dall’interiorità più profonda e vulnerabile dell’uomo, di ogni uomo, dipinto però con i colori sontuosi, fulgidi, concentrati intorno al senso della loro ormai fugace intensità, che sono quelli dell’autunno, dell’ottobre della vita. E, anche, un tempo affidato alla letteratura, alle sue arti manipolatrici, al suo potere affabulatore in grado di decantare e sciorinare, portare alla luce, scavare e dissodare, concentrare il distillato di ciò che sarebbe altrimenti pietosamente soggetto alla distrazione, alla momentanea dimenticanza nel tempo così debole e dispersivo dell’esistenza. Benedetti scrive questo libro nella splendida maturità della sua vita e della sua creatività, nel momento del pieno e maturo possesso dei suoi strumenti espressivi, lo genera nel tempo della fioritura della sua voce poetica e qualcosa di questa sua pienezza traspare dalle pagine dell’accorato e lucidamente sconsolato diario da cui è costituito.
E’ per questo, credo, che seguendo i giorni di Martín Santomé, la sua quotidianità, si compie una sorta di viaggio verso l’essenziale, per questo l’esperienza così umana dell’amore raccontata da lui – della straordinaria felicità e dell’altrettanto straordinario dolore che è in grado di recare con sé – è così lontana dalla banalità e anche nel giorno più ordinario, nei luoghi più ordinari, è illuminata da una intensità profonda, pacata e vera, così che un ufficio diventa teatro di sguardi e gesti pensati e trattenuti più intensi di ogni possibile compimento e il tavolino di un bar chiassoso, il luogo sacro in cui si compie una privata e segreta cerimonia. Il fatto è che Benedetti ha una assidua frequentazione con l’anima, la cerca, la chiama, la sollecita nei suoi versi; come se facesse parte del repertorio di scenari in cui ci muoviamo o di oggetti che possiamo maneggiare, la tocca, la manipola e cerca di penetrarla, di comprenderla e di impadronirsene completamente. Così che nel romanzo addirittura scova il luogo fisico in cui risiede ed avverte la sua presenza: “E subito ho avvertito un terribile peso al petto, un’oppressione che non sembrava interessare questo o quell’organo, ma era quasi asfissiante, insopportabile. Qui, nel petto, vicino alla gola, qui deve stare, raggomitolata, l’anima. […] Quell’oppressione al petto era la vita”.
Benedetti sembra giocare – ma “non è un gioco: è qualcosa di essenziale” – con la pienezza e con la caducità, con la pienezza che brucia e che quasi opprime come una strana specie di ferita impossibilitata a rimarginarsi e con la sua natura caduca che la rende una tregua nella guerra persa in partenza della vita. E allora viene il sospetto che la vicenda dell’ultimo amore di Martín Santomé e della sua drammatica e traumatica fine causata dall’improvvisa morte della giovane Avellaneda, già di per sé così struggente, come avviene quando la letteratura esplica tutto il suo potere, alluda anche ad altro, ad altro che solo il grande amore o la grande poesia miracolosamente rivelano, a quella tregua innaturale nell’ordinaria esistenza in cui l’apice si rivela, in cui si gusta la pienezza, in cui le giornate non sono più povere, indegne o limitate, quell’apice che “non è l’eternità, ma è l’istante che, in fin dei conti, ne costituisce l’unico vero succedaneo”. Una tregua che è un argine contro l’inconsistenza e che Benedetti celebra nei suoi versi fatti di tutto ciò che è ben custodito nelle profondità dell’animo umano e che ha bisogno di essere continuamente rivelato: “con la memoria di queste ombre/ ecco che raggiungiamo/ certe volte/ certe rarissime occasioni/ la blindata e fragile poesia/ o forse solo la memoria/ dell’ombra della poesia”.