EMMANUEL BOVE – I miei amici – Feltrinelli
“Il mio caso assomiglia a quello di un mendicante che, in pieno inverno, canta su di un ponte a mezzanotte. I passanti non offrono niente, perché trovano quel modo di chiedere l’elemosina troppo teatrale. Allo stesso modo, vedendomi appoggiato coi gomiti a un parapetto, triste e sfaccendato, i passanti intuiscono che sto recitando una commedia. Hanno ragione. Però, non pensate sia comunque una situazione ben triste quella di mendicare a mezzanotte sopra un ponte, o di appoggiarsi coi gomiti a un parapetto per interessare la gente?”.
Questo breve e perfetto romanzo di Bove è un’elegia triste, una sonata patetica; possiede l’equilibrio e il rigore della poesia e della musica e li raggiunge per mezzo di una scrittura preziosamente dimessa, volutamente monocorde, splendida nel suo assoluto rifiuto dell’effetto, nella sua volontà di rimanere ancorata ai dettagli per utilizzarne l’alfabeto e la voce. E’ l’elegia di Victor Baton che canta la sua solitudine e la sua povertà, che lo disgustano, e i suoi vani tentativi di avere degli amici, di lavorare, semplicemente di vivere, in un lungo racconto monologante che rende conto sostanzialmente di una serie di fallimenti che non possono che condurre alla disillusione, già presente in nuce, come un destino, fin dalla prima pagina. Bove permette ai lettori di scrutare la miseria e la solitudine, la povertà materiale e la ben più desolante mancanza di rapporti umani, fin nelle loro viscere più profonde, accompagnandoli, attraverso una storia semplice ed esemplare, a toccare quasi con mano le minutaglie, gli scarti, le briciole che pure, tutti insieme, possono comporre la vita di un uomo.
C’è un equilibrio, tangibile, nella costruzione di questo romanzo, una simmetria strutturale che, più di tante invenzioni, più di qualsiasi intreccio, dice di quel grado zero, di quella disarmante semplicità che l’autore sceglie come terreno di coltura più adatto a far risaltare la vastità e la profondità del senso di estraneità, di non appartenenza a nulla e a nessuno, quando si decanta, quasi stupito di se stesso, attraverso i giorni e le notti, nei più minuti, squallidi, quotidiani e disarmanti particolari di una vita condotta sul filo della rassegnazione e della più ingenua e credula volontà di autoillusione. Simmetria che è, anche, beffarda ironia e forse persino involontaria e amara comicità, perché sembra contenere tutta la drammatica difficoltà della vita e nello stesso tempo la sua illusoria leggerezza. E così Bove rinchiude la vicenda umana di Victor Baton all’interno di un ordinatissimo contenitore che si apre con un prologo, all’inizio di una qualsiasi giornata di ordinaria miseria e di altrettanto ordinaria solitudine, e si chiude alla fine di un’altra giornata, sull’amara e rassegnata ammissione del protagonista riguardo alla propria debolezza, che lo rende ancora più solo, perché invece, gli altri, gli uomini forti, “non sono soli nella solitudine”. Prologo e conclusione che racchiudono un ordinato repertorio di tentativi fallimentari, ognuno etichettato mediante un nome e un cognome – sono questi i miei amici che danno il titolo al romanzo – esemplari di varia umanità, portatori di altrettanto varie miserie o meschinità, oppure semplicemente di vuota banalità e ottusità, scelti come occasione di riscatto e, puntualmente, fonte dell’ennesima disillusione, perché nessuno di loro è in grado di intuire “i tesori d’affetto” nascosti nel cuore di un uomo “sentimentale e indolente” che “chiede solo di amare”.
I brevi capitoli del romanzo sembrano ripercorrere ordinatamente una dopo l’altra, riproponendo ogni volta un tragitto che dallo stupore incredulo, dalla felicità ingenua e dall’esaltazione porta, sempre, alla sofferenza per l’incomprensione altrui, tutte le possibilità di relazione che la vita può offrire. Con inesausta disponibilità, Victor tenta di trovare un’amate, un amico che sia suo pari, una persona che possa essergli di aiuto, una persona da aiutare che possa essergli grato, un protettore che abbia per lui le attenzioni di un padre, tenta e si illude persino di poter trovare l’amore, ma, ogni volta, un ostacolo, vero o presunto, si frappone tra lui e la realizzazione dei suoi desideri, ogni volta la lenta e paziente costruzione di un rapporto si conclude in modo brusco e repentino e tutto ricomincia da capo, seguendo le tappe di un percorso che appare preordinato e ineluttabile: “Chi non mi conosce bene potrebbe pensare, di primo acchito, che sono difficile, e che questa sia la causa della mia infelicità. No, chiedo soltanto un po’ di amicizia. So che è un segno di grande saggezza quello di non chiedere alle persone più di quanto possano dare. Bisogna prenderle per quello che sono. Io lo so. Sono saggio. Non chiedo che di prenderle come sono. Ma perfino questo mi viene negato”.
All’inizio e alla fine di ogni sua umana avventura Victor Baton si ritrova irrimediabilmente solo con i suoi pensieri, eppure – e in questo risiede parte del curioso fascino che tiene avvinti a queste pagine – il romanzo di cui è protagonista è affollato di presenze, è un campionario di una calda, vitale, chiassosa e anche sporca umanità, nella quale quest’uomo solo non fa che immergersi, uscendo dalla sua povera camera al mattino presto e rientrandovi di sera tardi, come se si recasse ad un lavoro, come se questa fosse l’occupazione che gli permette di vivere: “Quando esco di casa, spero sempre in un avvenimento che possa sconvolgermi la vita. Lo aspetto fino a quando rientro. E’ per questo che non resto mai nella camera”. Ma questo giovane uomo sembra non conoscere le più elementari regole per poter integrarsi, non è in grado di imparare le istruzioni per l’uso di questa imperfetta vita, è fatalmente destinato a rimanere un disadattato, troppo ingenuo, troppo candido e sentimentale, troppo dimesso e propenso all’illusione, così ipersensibile che prova affezione per la propria tristezza e desidera forse la compassione ancora più della stima: un vagabondo solitario che desidera solo essere benvoluto e percorre un mondo sudicio guardandolo con speranza ma anche con estrema lucidità.
Bove sceglie il tema dell’inetto, ma trova un modo tutto suo ed estremamente efficace per decantarlo e radicarlo nell’immaginario del lettore, sceglie di volare basso, di mantenersi sottotono, ben lontano dal soggiacere ad esigenze stilistiche, procede con una narrazione microscopica dove sono le cose, i mille dettagli a determinare il tono, l’atmosfera più adatta per rendere l’inazione della povertà, che è povertà dello spirito, più che materiale, povertà che sfiora la purezza. La sua stessa prosa è povera, ingenua, pura e disarmante, la più adatta a rendere la discrezione e il fallimento che sembrano le cifre distintive del suo povero eroe. Come non pensare a Robert Walser? La grandezza della scrittura disadorna che fugge da tutto ciò che è letterario, che rifiuta di asservirsi ad uno stile, che, mentre procede, aspira a passare inosservata. Eppure, per dirla con Manganelli, quanto “rumore sottile” fa questa prosa.
Ho letto sempre con piacere le tue recensioni, anche perché mi hanno permesso di scoprire autori altrimenti sconosciuti. Ma mi ero (anche) sempre chiesto come mai non avessi mai postato nulla su Bove (del quale ho letto altri due racconti). Un autore che, attraverso l’asettica descrizione di un tavolo sbrecciato, sa rendere appieno il senso di degrado aleggiante in una stanza e nell’essere che la abita.
Ti ringrazio. Apprezzo molto la scrittura di Bove e, oltre a questo, ho letto altri suoi romanzi tutti molto belli, uno dei quali, “Un uomo che sapeva” decisamente splendido. Purtroppo non sempre riesco a scrivere come e quanto vorrei e mi dispiace perchè questi brevi appunti riescono a mantenere viva in me la memoria e la motivazione dell’ammirazione che certe pagine mi suscitano.
Bell’articolo per un bel libro…. e ora l’editore Fusta ha stampato un libro con i primi racconti di Bove coevi a “I miei amici”! Eccolo qui: http://fustaeditore.it/shop/bassa-stagione/227-una-visita-serale-e-altri-racconti.html
Non sapevo di questi racconti. Li cercherò sicuramente. Ti ringrazio! Un saluto. Anna