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letteratura tedesca

AA. VV., “Breviario espressionista. 19 poeti tedeschi”

AA. VV. – Breviario espressionista. 19 poeti tedeschi – Millelire Stampa Alternativa

Breviario espressionista“Sappi dunque: ferini giorni vivo./ Un’ora d’acqua sono. La mia palpebra/ la sera – bosco e cielo – s’assopisce./ Poche parole solo sa il mio amore:/ al tuo sangue vicino è tanto bello”. (G. Benn, “Minaccia”)

Il lavoro di Luciano Parinetto – attento lavoro di scelta, intenso e suggestivo lavoro di traduzione – consegna in questo agile libretto al lettore italiano una silloge poetica che, ammettendo con il suo stesso titolo la propria naturale incompletezza, compensa la sua stessa brevità mediante la forza e il peso specifico dei versi che la compongono. Una intensa esperienza di lettura attende chi si addentra nella poesia espressionista tedesca, nel ritmo lento e quasi ieratico di parole che non sembrano nascere per essere dette o proclamate, ma per scolpirsi nel silenzio assorto di una coscienza che ancora oggi, dopo più di un secolo, viene sollecitata, ravvivata, scossa e vivificata dalla giovane energia che trasuda dai versi di questi poeti.

L’alba del Novecento ha dato vita in Germania ad una felice generazione affollata di personalità insieme creative ed eversive, o meglio, creative proprio perché in grado di trovare nella propria spinta eversiva la voce adatta a renderla universale. “Un’eversione con eruzioni, estasi, odio, sete d’un’umanità nuova, con un linguaggio che va in pezzi per far volare in pezzi il mondo”, così Gottfried Benn, uno dei suoi maggiori rappresentanti, definisce l’espressionismo. E’ la voce di una rivolta generazionale, un passo obbligato in qualsiasi crescita, che trova qui, eccezionalmente, nella poesia un terreno fertile e che in esso si radica, forzando il linguaggio stesso a compiere un salto decisivo verso la più vertiginosa profondità per recuperare, per quanto possibile, un po’ della propria genuinità. Così, mentre questi giovani poeti si scagliano contro l’ipocrisia della società e lanciano le loro invettive contro gli idoli marci dell’autoritarismo, forse senza nemmeno immaginarlo, rendono uno straordinario servizio alla poesia, la resuscitano, le danno aria e vigore, perché la parola poetica rivela tutta la sua forza quando è spinta a rompere la scorza dell’indifferenza e della superficialità, della massificazione e, anche, del sentimentalismo. La parola poetica anela alla conoscenza ma persegue le vie che le sono proprie, quasi sempre impervie vie che richiedono lo sfrontato coraggio della giovinezza.

I giovani poeti che Parinetto presenta urlano, forte, ma il loro urlo non è di sola rabbia, è anche un urlo di angoscia perché “il mondo è morto”, perché “il buon dio dentro il cielo è barricato”, “morta è la luna”, “V’è un pianto dentro il mondo/ Come morto/ fosse il buon dio”, “V’è una luce, che in bocca mi si spegne”, “Un amen/ sgocciola nei miei pensieri”, è un urlo che dona alle loro parole l’ardimento che le rende pulite e scintillanti. Si può essere solidali con l’odio verso l’ipocrisia della società borghese, con la rabbia di chi si sente escluso, ma ancora di più si avverte come propria la disperazione genuina del dolore quando si fa ribellione contro l’insensatezza dell’esistenza: “I giorni si distaccano da noi/ come svuotate bacche./ Più con noi/ non li portiamo. Né più conosciamo/ il luogo loro. Più nessun cammino/ trovano i nostri piedi./ senza sapore, vuoti essi si sfanno./ Nell’estremo lontano”. Queste giovani voci, per sempre giovani, hanno il potere di attrarre, di tenere avvinti dall’inizio fino alla fine perché la loro è una chiamata, una chiamata alla rivoluzione, che non è solo quella sociale o politica perché si delinea innanzitutto come ribellione contro un destino avverso che tutti accomuna: “Oh diluvio dell’anima, dolore,/ interminato lampo, vieni!/ e valli,/ e palafitte ed argini tu stritola!/ Erompi dalla ferrea strozza! Tuona! Voce d’acciaio, tu!”.

Rompere, urtare, lacerare, sono azioni che sottotraccia scorrono nei versi irregolari e disarmonici degli espressionisti, una violenza nelle azioni e anche una ricerca quasi morbosa di situazioni più che drammatiche, truculente, ambientazioni del tutto inusuali nell’ambito poetico, una messa funebre, un cadavere steso sul tavolo dell’obitorio, un manicomio, una città morta… e non c’è riparo di sorta, non ci sono mezze misure, tutto appare come illuminato impietosamente, eppure mai tutto ciò suscita disgusto o repulsione, forse perché le parole che veicolano tali immagini possiedono una sorta di grazia, incedono con nobiltà, esprimono in ogni attimo una consapevole compartecipazione in grado di recuperare improvvisi accenti di una lirica tutta nuova, povera, piccola, desolatamente umana, pronta a cantare la grandezza disadorna di povere creature dimenticate, e non ha importanza se si tratta di un uomo, di un fiore o di un piccolo animale. Non è la poesia delle piccole cose, è il dramma della vita e della morte in tutte le sue forme che diventa degno del canto di un poeta.

Sono versi d’accenti disperati e disillusi, parole come lame che scardinano ogni vuoto formalismo e rivendicano l’autenticità di un sentire individuale che sembra debordare di umana pietà e anche di un’umile forma di religiosità perché dio, come le sue creature, è abbandonato, morto, ammutolito ed anche a lui si guarda con compassione. Versi di una tristezza infinita che l’alchimia poetica, esuberante di energia, tinge di una improbabile allegria: una tristezza allegra pervade l’universo espressionista insieme ad una residua forma di misticismo, l’unica a cui sembra valere la pena di tendere con umile e devoto rispetto: la mistica dell’amore umano. Niente a che vedere con la lirica amorosa, la bellezza della donna amata viene quasi sottaciuta e il sentimento protetto da un feroce pudore; l’amore deve essere celebrato perché merita nuovi riti, cantato con una grazia timorosa e con gli accenti di una devota delicatezza: “Bianco capriolo è l’amor tuo, che fugge/ dalla mia brama nella mezzanotte,/ un albero di lacrime si drizza/ verso te dentro il bosco dei miei sogni/ e sei là -/ adempimento che la luna/ mi versa dalla coppa dei suoi raggi -/ io ti amo,/ tu/ e riverso sulla soglia/ della tua stanza aroma di garofani/ e sul tuo letto narcisi distendo./ argenteo come te io giungo e in alto/ m’inarco consacrato bosco sovra/ l’ara della devota anima tua.” (Kurt Heynicke, “Nel mezzo della notte”).

I versi degli espressionisti tedeschi non sono facili, non è facile cogliere il loro ritmo, il loro impasto musicale, entrare in sintonia con le loro scelte lessicali e con il loro repertorio di immagini, seguirli anche quando la crudezza o l’eccessiva energia sembrano esasperare e respingere, ma poi non è nemmeno facile dimenticarli perché penetrano e permangono, scolpiti come l’impronta di un’ardente giovinezza. D’altra parte “non esiste suprema manifestazione della Bellezza di fronte a cui saliamo comodamente una scala di sensazioni per sederci leggeri sull’ultimo gradino ad assimilare il nostro appagamento: quello è il piacere della Leggiadria. Noi veniamo afferrati fisicamente e scagliati a perdifiato al sommo di una rupe a picco: che è il dolore della Bellezza” (Samuel Beckett, “Racconti e prose brevi”).

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giovanni baldaccini
8 years ago

A parte l’essenzialità del linguaggio, di espressionista ci trovo ben poco. Più che altro noto dei rigurgiti romantici quando, addirittura, non stilnovisti. Comunque il tuo lavoro è sempre prezioso. Grazie Anna.