CHRISTINE LAVANT – Poesie. Scelte da Thomas Bernhard – Effigie
Traduzione di Anna Ruchat
“Il vento del sud si muove nel bosco/ e la quaglia nel grano./ Un numero sconosciuto/ altera i battiti del mio cuore,/ finchè il cane di corte non mi abbaia contro/ e una delle galline nere/ si avventa sulla mia ombra./ Prima lo facevano il sole e la luna./ Ma io ho assillato il Padreterno/ per avere qualcuno che mi stesse accanto/ nel canto del vento/ nel fremito della quaglia/ nello svanire del battito del mio cuore”.
Christine Lavant, per il lettore italiano che apprezzi particolarmente la letteratura austriaca del Novecento, si colloca al centro di una costellazione densa di rimandi, estremamente suggestiva e protetta da potenti numi tutelari. Primo fra tutti, Thomas Bernhard: il sottotitolo della presente raccolta precisa infatti che i testi qui riuniti sono stati scelti da lui. Sono stati quindi espressamente individuati e privilegiati dall’autore austriaco, pescando all’interno della ben più vasta produzione della poetessa, e pubblicati presso il suo editore tedesco nel 1987, due anni prima della morte dunque, e due anni prima della sua ultima pubblicazione in vita, rappresentata dal frammento “In alto”. Giungono a noi tramite la traduzione e la cura di Anna Ruchat, esperta e talentuosa traduttrice dello stesso Bernhard presso i tipi dell’Adelphi, per la precisione dei romanzi “Antichi maestri”, “Il freddo” e “Il respiro”.
A lei dobbiamo la presenza della stessa voce di Bernhard che, anche nell’edizione italiana, apre e introduce i versi della Lavant, a mo’ di prefazione: “Questo libro documenta la cronologia della vita di Christine Lavant che fino alla morte non ha trovato né pace né tranquillità e che nella sua esistenza si è flagellata attraverso la sua persona ed è stata distrutta e tradita dalla propria fede cristiano-cattolica; si tratta della testimonianza elementare di un essere umano strapazzato da tutti gli spiriti celesti, un essere umano, che altro non è se non grande letteratura, meno conosciuta nel mondo di quanto meriterebbe. La scelta qui proposta segue solo il mio intento e quello di nessun altro. (Thomas Bernhard)”. I versi della Lavant sono qui idealmente compresi tra queste insolitamente lusinghiere parole del grande scrittore e drammaturgo austriaco – “un essere umano, che altro non è se non grande letteratura” – e quelle della stessa Ruchat che nella postfazione – dal titolo “Porta via l’ombra del mio angelo” – rende conto dei preziosi contenuti delle lettere che, a proposito della Lavant, Bernhard spedisce al suo editore, Siegfrid Unseld, (dando tra l’altro la notizia dell’esistenza di un corposo carteggio tra i due, da lei definito “splendido e ricchissimo”, uscito nel 2009 e non ancora pubblicato in Italia). Il lavoro della Ruchat diventa così il tramite attraverso il quale il lettore appassionato di Bernhard può avvicinarsi alla poetica della Lavant attraverso un accesso privilegiato, attraverso cioè la chiave di lettura bernhardiana: “era un essere assolutamente terreno, molto intelligente e raffinato. Viveva sopra il tetto di cemento di un supermercato e batteva le sue poesie direttamente a macchina. Per me tutto questo è molto più significativo di tutte le menzogne raccontate sulla sua estraneità al mondo, sul suo romanticismo valligiano e su un destino voluto da Dio, tutte cose che sono state dette e ripetute, continuamente su di lei fino a oggi”.
Un essere assolutamente terreno, molto intelligente e raffinato, tre aggettivi che fanno giustizia di tutte le dicerie, che dipingevano la poetessa come una sorta di folle in Dio, malata e pazza, e che esaltano il suo tormento interiore, considerato il pegno da pagare per il dono dell’intensità. Quanto all’isolamento, Bernhard, che di esigenza di solitudine e di fuga dalla solitudine qualcosa sapeva, ne dà una spiegazione per così dire geografica, che introduce al secondo nume tutelare di questa costellazione austriaca: Ingeborg Bachmann. Lavant infatti è lo pseudonimo della poetessa, che di cognome faceva Thonhauser, ricavato dal nome della valle della Carinzia in cui era nata, la valle Lavanttal appunto, situata a metà strada tra Klagenfurt, città natale della Bachmann, e Graz. E nel manicomio di Klagenfurt la ventenne Lavant dopo un tentativo di suicidio sarà ricoverata per sei settimane. E’ lo stesso Bernhard ad accomunare le due poetesse a partire dalla loro identica origine, utilizzando una delle usuali iperboli con cui in genere aggredisce la propria nazione natale (ma i suoi lettori sanno bene che cosa nascondono le sue invettive e la sua propensione per l’esagerazione): “La nostra poetessa è tra le più interessanti e merita di essere conosciuta nel mondo intero. La Carinzia che rende malinconici, privi di spirito, lontani dal mondo ed estranei a esso, è stata fatale per le due sorelle nella poesia, Bachmann e Lavant […] ma è da questa Carinzia terribile e priva di spirito che le due poetesse sono nate”. E le due sorelle nella poesia, pur vivendo in modi e luoghi molto diversi – la Bachmann sempre più lontana per scelta dal paese di origine, la Lavant quasi reclusa in esso – condivisero, per una strana coincidenza del destino, una morte prematura nello stesso anno, il 1973.
E’ naturale per il lettore che entri in contatto con un mondo poetico ancora sconosciuto – e la poesia si rivela con lentezza, richiede tempo, pazienza, fiducia e abnegazione – cercare dei punti di riferimento, degli echi e dei rimandi ad altre voci più note che servano da tramite, o da rassicurazione e accompagnamento; nel caso della Lavant queste voci appartengono a Bernhard e alla Bachmann, ma anche a Rilke e a Celan, e rimandano costantemente ad una conoscenza profonda e interiorizzata dell’Antico Testamento. Dai versi della poetessa traspare una religiosità decisamente personale che, pur attingendo alla più consolidata tradizione liturgica e ricalcando molto spesso il ritmo dell’inno, si colloca costantemente tra la devozione e la ribellione, una religiosità interpellata da una mente vigile e reattiva e da uno spirito tormentato. La voce poetica si rivolge a un Dio che è un Tu a cui sottomettersi e chiedere perdono – “Perdonami Dio Padre, Figlio e Spirito Santo!/ Voi siete una trinità e io sono così sola/ e nessuno lassù risveglia il mio destino” – ma anche da redarguire con energia, quasi con furia e al quale imputare la propria infelicità: “Mi hai strappato fuori da ogni gioia,/ ma io ne soffrirò soltanto,/ solo e unicamente, finchè/ ne avrò voglia, Signore./ In uno stato di ferocissima superbia/ e furibonda audacia ti sto davanti./ Solleva la tua mano e fustigami,/ vedrai che salterò sempre più in alto/ e tu mi avrai davanti agli occhi in eterno,/ una piccola sfera rossa e rabbiosa./ Ogni punto mi scaglia indietro verso di te/ perché tu mi hai strappato via da quell’unico punto/ in cui io ero cuore, gioiosa e tenera come un uccello,/ per poi appallottolarmi/ e scagliarmi nel dolore eterno”.
Questo Dio che delude ma che non si può abbandonare è come un amante che innalza e precipita e tiene desto uno spirito sottomesso e battagliero come quello delle grandi mistiche e così ebbrezza ed umiltà in questi versi sono destinate a tramutarsi in energia ed intraprendenza. La reiterata affermazione della propria nullità che l’autrice modula attraverso i suoi versi – “io vivo di ruggine e di muffa”, “Sono uscita atrofizzata dal ventre materno”, “Decrepita fisso la ruota del tempo”, “Certo non son più una creatura di Dio”, “La luce dei miei occhi non vale più nulla”, ecc. – non deve trarre in inganno: sotto le spoglie di un’anima debole stenta a nascondersi, e infatti finisce quasi sempre per affermarsi, una sorta di rabbia orgogliosa che si dispiega nel canto: “Mai griderò chiedendo aiuto./ Tra le pietre del selciato e gli occhi di rospo/ seguo la mia debolezza rabbiosa/ nella fortezza del Padre”.
La poesia della Lavant è un corpo vivo e mutevole che riserva sorprese ed appassiona per la strana alchimia con cui a questa sorta di personalissima liturgia religiosa si affianca, anzi si mescola con risultati sorprendenti l’utilizzo frequentissimo di un lessico riferito all’ambiente contadino e campestre. Un intero repertorio animale – una sorta di personale arca di Noè – si muove nei versi di queste poesie, bilanciando il peso grave della tradizione biblica con l’immagine un poco inquietante e un poco disarmante di presenze che hanno perso tutta la loro inoffensiva quotidianità – galli, galline, cani, colombe, tartarughe, quaglie, ecc.. – per acquisire un’anima pagana che diventa di volta in volta nemica o compagna del soggetto poetico, così come in una sorta di animismo universale tali diventano gli astri, la luna, le stelle e tutto ciò che di più duro e pesante la natura mette a disposizione, pietre, radici, minerali e fossili. Perché così il dolore dipinge se stesso di mille diverse sfumature che lo trasformano in invettiva. E forse per questo sempre Bernhard scrive in un altro passo delle sue lettere a Siegfried Unseld: “Sceglierò le poesie della Lavant e in segreto mi rallegro infinitamente del volumetto per i felici giorni di lutto in autunno”.
Una poetica che colpisce, che non lascia indifferenti, in particolare per il contrasto tra cedimento e ribellione che reca in sé. Non conoscevo questa figura tormentata-vigorosa della letteratura tedesca, e anche Bernhard e Bachmann sono autori che da tempo stuzzicano il mio interesse… chissà se quest’anno sarà la volta buona. Complimenti per l’articolo, come sempre impeccabile.
Grazie Alessandra, della Lavant avevo letto finora solo i racconti, editi da Zandonai sotto il titolo “Nell”, e so che esiste un suo testo autobiografico intitolato “Appunti da un manicomio”. La scoperta dell’edizione italiana di queste poesie è stata una felice sorpresa perchè mi sembrano giungere direttamente dal mio amato Bernhard come un suo consiglio letterario…