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letteratura tedesca

Helga M. Novak, “Finché arrivano lettere d’amore. Poesie 1956 – 2004”

Helga M. Novak – Finché arrivano lettere d’amore. Poesie 1956 – 2004 – Effigie

Traduzione di Paola Quadrelli

Camminare

“ma che pietra è mai questa/ che ho al collo/ non un ornamento/ questo è chiaro non un contrassegno/ eppure ho una pietra appesa/ al collo/ pesante abbastanza da incurvarmi/ per l’intera vita/ e però troppo leggera per/ scendere in acqua con lei/ il flauto del pifferaio magico/ galleggia più in alto”.

La casa editrice Effigie con la sua neonata collana “Le Meteore” ha offerto nel 2017 al lettore italiano la rara opportunità di conoscere due voci poetiche femminili della letteratura tedesca del secondo Novecento da noi del tutto sconosciute ai più, quella dell’austriaca Christine Lavant, attraverso la silloge poetica selezionata da Thomas Bernhard, e quella della tedesca Helga M. Novak, mediante il presente volumetto che comprende numerose e convincenti testimonianze di una vasta e variegata produzione lunga più di cinquant’anni. Una vita dunque, una biografia poetica che rende conto e lascia traccia di una vita interiore che accompagna i giorni e gli anni, come una sorta di musica di sottofondo, ma forse anche come una sorta di esistenza alternativa, se è vero che la poesia, come l’arte in genere, non sfugge la realtà ma la anima, “è uno spirito che cerca la carne ma trova le parole”, per usare una bellissima espressione di Iosif Brodskij.

A partire da quella di Ingeborg Bachmann, si viene così a comporre, una triade di voci femminili che, pur nella loro decisa individualità, mi appaiono connotate da una sorta di apparentamento, di sorellanza, non tanto e non solo per l’area linguistica che le accomuna – l’Austria per Bachmann e Lavant e Germania dell’Est per la Novak – quanto perché i loro versi, così ricchi di fierezza, di ribellione, di acuta intelligenza, di sovversione, sembrano passarsi il testimone da un decennio all’altro – la Lavant nasce nel 1915, la Bachmann nel 1926, la Novak nel 1935 – e unirsi in un’eco duratura a riprova di quanto sia lontana la poesia – e la poesia prodotta da autori femminili – da quella svenevolezza sentimentale che troppo spesso le si attribuisce. Sono autrici talentuose portate all’invettiva piuttosto che alla preghiera, che usano il loro dolore per piegare la realtà e per farla fiorire, che imbracciano la parola come un’arma e la conducono là dove è difficile arrivare, sanno espandere il reale, aprire varchi, suggerire direzioni, sanno anche essere ardite ed eccessive, certo, ma questo è il pegno da pagare se si vuole che la poesia non consoli ma provochi, se si vuole che sia “affilata di conoscenza e amara di nostalgia”, come amava affermare Ingeborg Bachmann. Lo sradicamento le rende sorelle, la sensazione di non appartenere ad una società e ad un tempo in cui non si riconoscono, ed è forse l’urgenza di ancorarsi, di trovare un terreno fertile per allevare la propria essenza più profonda, che le spinge ad usare le parole per infrangere muri di insensibilità, ipocrisia, violenza ed arroganza, parole che sono radici pronte a germinare.

La poesia della Novak, irruente, precipitosa e impetuosa, forse perché così sono stati gli anni e i giorni che le sono toccati in sorte, è davvero connotata da quella “ruvida tenerezza” che la traduttrice e curatrice del volume, Paola Quadrelli, le attribuisce nel titolo della sua Prefazione (riportando le parole del poeta e cantautore tedesco Wolf Biermann), preziosa nel ripercorrere le fasi di una vita travagliata e in gran parte, anche se non solo, determinata dalle vicende storiche e politiche attraversate dalla Germania dal secondo dopoguerra. “sono tedesca e non solo/ per la lingua/ sono tedesca dell’est finchè/ i pali non marciscono/ finchè diffidenza e spie/ insaporiscono le salse fatte in casa/ me ne sto seduta al lato spoglio del tavolo/ sono tedesca dell’est e trascino/ dietro di me un grumo di speranza”; traspare dai versi della Novak una sorta di orgoglio a volte determinato e testardo, a volte delicato e commosso nel ribadire un’origine e una patria percepite come casa e legame – “a casa mia fioriscono i ciliegi/ e i lillà/ e nei castagni si librano gli amenti bianchi e rossi/ del bruciante e buono amore” – un attestato di ferrea fedeltà  – “sono fedele agli alberi come un cane” – ad un mondo fatto di tradizioni, arte, cultura e mitologia che avverte minacciato dal regime repressivo e autoritario della DDR – “io non lo so perché/ i miei nervi palpitino ancora/ di questo antico incompreso incompiuto/ nauseabondo e lungo amore” – e che la esaspera, la disillude e la tradisce, trascinandola ai limiti dell’invettiva: “patria mia tu puzzi/ di bestiame in fiera/ io mi tappo il naso/ e proseguo a sinistra”. E’ la ruvida tenerezza di chi, abbandonato e non amato fin dalla nascita, ribadisce la propria libertà da ogni vincolo, gridando però in ogni parola il proprio dolore: “nessuna madre mi ha mai nutrito”, “son dunque libera e ingrata”, “sono di una covata cresciuta nel nido d’altri/ a quelli che mi danno da mangiare mai sfugge/ il mio tratto straniero”.

La poesia sembra il terreno adatto a far convivere la fiera e orgogliosa rivendicazione della propria profonda solitudine, della propria indipendenza affettiva, con la disperata richiesta d’amore e di legami: “va’ e cerca i miei amici/ di’ loro che son viva son morta son viva/ scrivetemi una lettera da casa/ andate nei bar vecchi e in quelli nuovi/ raggiungete le città vecchie e quelle nuove/ scrivetemi una lettera da casa”, l’unico luogo in cui si possa immaginare il calore, la sicurezza, la protezione di una casa, come nella bellissima “Brina”: “tende di pizzo dietro ad arabeschi di ghiaccio dietro a finestre di otto riquadri dietro/ a imposte intagliate dietro a smerigliati/ cespugli scintillanti ogni ramo/ un gallone di pizzo cesellato come argento/ lungo i ramoscelli e nelle biforcazioni/ teli leggeri in tulle garza velo e mussolina/ dal cornicione scendono pesanti tendaggi/ di ghiaccioli frange pizzi traforati/ casa in legno sogno d’infanzia castello in aria/ nascosta camuffata avvolta nelle trame del gelo/ tessuti filamenti ricami della fantasia sei/ gradini di legno una soglia tra/ me e una vita sognata”. Poesia casa, ma anche poesia specchio, perché i versi e le parole sembrano essere per la Novak la certezza di una consuetudine, un’abitudine e un vizio, e forse l’unica verità, ed è attraverso questo specchio che risaltano chiari, i suoi lineamenti: “di schock e di traumi sono fatta”, “per una volta non essere invadente diffidente/ ritrosa maligna avida bonaria asociale/ per una volta non essere”, “potesse la nave incagliarsi e spaccarsi/ potesse il ghiaccio spezzare i ponti all’istante/ i mari là fuori non c’è gelo che li ammansisca/ e nella mia testa nessuno doma le sirene”.

Una testa piena di indomabili sirene non può certo tacere le ingiustizie di un regime autoritario e illiberale – pagandone dure conseguenze – e molte poesie della Novak rivelano un forte debito nei confronti di Bertolt Brecht, assumendo il tono di invettive politiche e di epigrammi satirici, giocando sul sarcasmo e sull’ironia per denunciare l’arroganza del potere – “la città piena di bambini che tu/ attraversi l’ho costruita io/ non mi ricordo/ del tuo volto quando/ alloggiavamo negli isolotti di baracche/ i balli notturni dei carpentieri/ tu non li hai visti gli urli/ delle donne non hai sentito/ quelle a cui legavano le gonne sopra la testa/ in tutti questi anni te ne stavi/ sopra le tribune a tenere discorsi/ su pace fucili lavoro norme/ anche quando indossavo l’uniforme/ sono passata oltre/ oltre le tue stralunate visioni politiche/ alla fine mi resta/ una domanda:/ a chi appartiene davvero/ la proprietà del popolo” – oppure utilizzando la forma della ballata per cantare la dolente pietà per i vinti della storia: “le scavatrici di torba/ vengono dai campi paludosi/ le loro teste rasate a zero/ ondeggiano nel crepuscolo/ come la collana di perle di una gigantessa/ a piedi nudi le donne lasciano/ le impronte nella strada catramata/ i soldati davanti alle palizzate/ aspettano i corpi/ delle scavatrici di torba”. La Novak, esiliata per nascita e per destino, dà prova nel suo lavoro di aver percorso e posseduto con pienezza i territori della poesia, sino ai limiti del dolore estremo e dell’estrema pietà e a quelli, sorprendenti per il suo animo inquieto e insofferente, dell’estrema delicatezza: “finchè arrivano lettere d’amore/ non tutto è perduto/ finchè mi raggiungono abbracci/ e baci seppure per lettera/ non tutto è perduto/ finchè nei pensieri/ vi chiedete dove io sia/ non tutto è perduto”.

Seguendo – chissà quanto consapevolmente – i passi di Arnold Schmidt, che trascorre l’ultimo periodo della sua vita nell’isolamento della brughiera di Lüneburg in Bassa Sassonia, la Novak interrompe la sua vita nomade per stabilirsi in una località nella brughiera di Tuchel, in Polonia, dove risiederà fino alla morte, conducendo per più di vent’anni un’esistenza appartata e immersa nella natura. A questi anni risalgono gli ultimi componimenti della presente raccolta, che testimoniano una pacificazione dell’anima, un abbandono sereno e a tratti addirittura felice all’elegia e all’idillio, un utilizzo si potrebbe dire più armonioso e rilassato degli strumenti poetici che si impadroniscono degli elementi della natura e li rendono luminosi e allusivi, in un desiderio appagato di immedesimazione: “Non è un caso che sia approdata qui/ la luce mi ha attratto in queste contrade/ questo giallo questo verde altrove son diversi/ e in nessun luogo la sabbia asciutta odora come qui”, “Desidero la pioggia che sciacqua la bocca sabbiosa il semolino le scorze/ di noci patate mele cadute/ desidero la pioggia che ripulisce lo stomaco/ sospinge acqua morbida nelle vene al cuore”, “senza foresta e dove non crescono alberi/ sono perduta il vento impazza ad ogni angolo/ la tempesta rivendica il nostro antico amore/ e mi afferra per i capelli/ la vastità che un tempo eccitava i sogni/ mi si è tramutata in un paesaggio/ di spoglia inquisitoria beffarda/ nudità che evoca e smaschera/ le mie invecchiate passioni”, “questa foresta in cui non sono mai sola con la mia/ salutare solitudine questa foresta di battute e terreni di caccia/ che si prolunga come un vecchio amore e accarezza/ la fronte rugosa mia casa e mio perenne nascondiglio”.

Le ultime poesie della raccolta, infine, che non so se siano le ultime composte dalla poetessa, mi appaiono come un lascito, una sorta di breve ma incisivo testamento poetico, un’ultima ed estrema attestazione di esistenza nella lieve traccia che consente la parola poetica: “dopo la mia morte l’anima/ che non so/ dove si trovi al momento/ (non l’ho mai vista)/ dove dovrebbe dirigersi dove/ quando morirò quando cadrò stecchita/ che il mio cuore smetta di battere/ è certo e anche che diventerà terra/ quanti cuori ho sentito battere/ le anime mai e a nessuno auguro/ il tormento di ospitare in futuro/ la mia anima un simile castigo/ non se l’è meritato davvero nessuno/ ma il mio cuore si decomporrà peccato”, “mi permetto di essere offesa/ rabbiosa fin nelle viscere e furibonda/ ma poi mi squarcia una risata/ dunque son libera di andare/ il mare ad esempio e io/ siamo fratelli/ il mare vero voglio dire/ non stagni circoscritti o pozze/ l’alto mare mi conosce lui mi aspetta”.

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Paola Quadrelli
Paola Quadrelli
6 years ago

Grazie per la bella e documentata recensione.
Paola Quadrelli