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Thomas Bernhard, “Sotto il ferro della luna”

THOMAS BERNHARD – Sotto il ferro della luna – Crocetti

Traduzione di Samir Thabet

sotto il ferro della luna

“Dietro il bosco nero/ brucio questo fuoco della mia anima/ in cui tremola il fiato delle città/ e il merlo della paura./ A mani nude abbatto queste fiamme/ che all’aria montano sino al cervello/ e che tremano nel mio nome./ Come una nuvola il mio cuore migra/ sui tetti/ vicino ai fiumi/ finché io, una tarda pioggia, ritorno/ nel profondo autunno”.

Luigi Reitani, nel saggio “L’arte dell’Ars moriendi”, che appare in postfazione alla sua traduzione della raccolta “In hora mortis”, edita da SE nel 2002, fornisce le informazioni necessarie per inquadrare la produzione poetica di Bernhard: cinque volumi di versi – “Sulla terra e nell’inferno” (1957), “In hora mortis” (1958), “Sotto il ferro della luna” (1958), “I folli. I forzati” (1962), “Ave Virgilio” (risalente agli stessi anni, ma pubblicato nel 1981) – ai quali si aggiunge una raccolta rimasta in gran parte inedita, comprendente 140 poesie, già pronta per la stampa nel 1960, che avrebbe dovuto avere come titolo “Frost” (Gelo), scelto poi da Bernhard per il suo primo romanzo uscito nel 1963. “Sotto il ferro della luna” è la terza raccolta edita in traduzione italiana (ad opera di Samir Thabet), segue infatti “Ave Virgilio” (Guanda, 1991, tradotta da Anna Maria Carpi) e “In hora mortis” (SE, 2002, tradotta da Luigi Reitani). Si tratta di una produzione non indifferente quanto a mole, tutta risalente agli anni giovanili dell’autore che, dopo la pubblicazione di “Gelo”, nel 1963, non ritornerà più al genere della lirica, ma si dedicherà esclusivamente alla prosa e alla scrittura teatrale. E’ una curiosa, ma anche significativa coincidenza, il fatto che, esattamente negli stessi anni, anche Ingeborg Bachmann, altra voce d’eccellenza della letteratura austriaca del secondo Novecento, abbia compiuto la stessa scelta.

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Ingeborg Bachmann, “Non conosco mondo migliore”

INGEBORG BACHMANN – Non conosco mondo migliore – Guanda

“… non vedete amici/ non lo vedete/ che dappertutto/ incomincio a scavare la mia/ mia tomba,/ anche in questa carta/ incido il mio nome e/ penso che non vorrei riposare/ ancora, che non riposerò/ mai, che/ persiste questo ferro/ nel corpo, questo pugno sul/ cranio, questa frusta/ sulla schiena…”

La storia editoriale di questa raccolta poetica è l’esito di una consapevole violazione della volontà della poetessa che non aveva destinato alla pubblicazione i testi che la compongono, una violazione perpetrata per amore, per ammirazione, per la caparbia volontà di non privare i lettori di accenti poetici – forse non del tutto rifiniti, in alcuni casi ancora in fieri, in altri già prorompenti e sospesi come grida, o gementi come sussurri – di una maturità, dolente e ferita, ma splendida nella sua capacità di domare e asservire il ritmo, di controllarlo per condurlo alla rottura ed alla esplosione, di costringere le parole ad una verità forse crudele, ma finalmente autentica, sempre sorprendente e viva, anche quando corteggia la morte. Una violazione perpetrata da Isolde Moser e da Heinz Bachmann, i fratelli della poetessa, incoraggiati in questa loro opera, di ricerca, raccolta, ricostruzione commossa a quasi trent’anni dalla morte della sorella, tra gli altri, da Hans Holler, l’autore de “La follia dell’assoluto”, un libro che è molto più di una biografia e che si configura come una vera e propria guida alla scoperta della iniziazione, della costruzione e della progressiva crescita di un intero mondo intellettuale e poetico, della formazione e dello sviluppo di quella acuta e intelligente sensibilità che ha lasciato la sua impronta anche in ognuno di questi versi, perentori, interlocutori, visionari, sofferenti fino alle soglie del pianto, drammatici e lucidi nel decantare il desiderio di autodistruzione.

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Ingeborg Bachmann, “Il buon Dio di Manhattan”

INGEBORG BACHMANN – Il buon Dio di Manhattan – Adelphi

“A questo mondo il tempo è poco. E quando tutto sarà scoperto e tradotto in formule, io ancora non avrò capito lo smalto dei tuoi occhi cangianti e la bionda steppa di peluria sulla tua pelle. Quando tutto sarà conosciuto, creato e ridistrutto, io mi perderò ancora nel labirinto dei tuoi sguardi. E il singhiozzo che sale per la via del tuo respiro mi sgomenterà come nulla al mondo”.

La giovane Ingeborg dei radiodrammi è già connotata, marchiata e illuminata da quella “follia dell’assoluto” che Hans Holler sceglie come titolo del suo libro biografico a lei dedicato, individuandola come chiave di lettura o formula esplicativa in grado di schiudere, per quanto possibile, le vie segrete di una esistenza, di donna e di poetessa. La follia dell’assoluto che discende con implacabile coerenza dal “coraggio di essere”, quel coraggio che, secondo Aldo Gargani – che così ha intitolato un suo saggio sulla cultura mitteleuropea e la sua introduzione ai “Diari segreti” di Ludwig Wittgenstein – è segno distintivo della fiorente stagione letteraria austriaca che ha visto formarsi ed evolversi, attraverso la spietatezza verso se stessi e l’inesausto lavoro sul linguaggio, avvertito come radicale esigenza etica, l’intera opera di Thomas Bernhard e di Ingeborg Bachmann. Follia e coraggio sono il controcanto silenzioso dei versi della Bachmann, forse il segreto del loro discanto; follia, coraggio e bruciante amore per l’assoluto che la pongono fuori dai giochi consueti delle anime salve, fuori dai compromessi, predestinata fin da subito a vivere nella continua ricerca – “di frasi vere”, direbbe lei – affetta da una sorta di disperazione linguistica, tormentata dall’urgenza di smascherare inganni, tradimenti e mistificazioni, ma anche illuminata, esaltata – e quindi esaltante – nella sua fedeltà a quella miracolosa utopia che è la letteratura, quando, anche per poco, arriva a sfiorare l’indicibile.

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Franz Innerhofer, “Bei tempi”

FRANZ INNERHOFER – Bei tempi – Feltrinelli

“Dietro i volti più sereni c’erano spesso i più cupi nascondigli, della cui esistenza non erano al corrente neppure i diretti interessati. Se l’uno era dominato per tutta la vita da una pietà tale che non alzava neppure il pugno dietro a una mucca, l’altro, alla minima occasione, era capace di ammazzare un bambino con l’assicella di uno steccato. […] Mentre gli uni affogavano timidi nell’acqua o si impiccavano, gli altri si aggiravano fieri per l’aperta campagna ad escogitare nuove oscurità”.

Questo libro sa di fango, sporcizia, gelo, aria torrida, fatica disumana, crudeltà insensata e muta disperazione. Eppure parla e ha una voce cruda come la terra da cui è nato, che esige sacrifici per concedere i suoi frutti, come in un rito pagano. Questo libro attira e respinge ad ogni pagina, perché costringe il lettore a camminare, girando a vuoto nell’aria aperta di un paesaggio svelato, sottratto alla sua apparente amenità, le cui valli, colline, alpeggi e pendici verdeggianti sono in realtà le pareti di un carcere che non lasciano intravedere alcuna via di uscita. Franz Innerhofer ha usato la letteratura per dare voce al “muto tormento” di una “sporca, lurida esistenza” e le sue pagine, che sembrano scritte di getto, che si prestano ad essere lette di getto, come un unico e non riproponibile momento di svelamento – perché forse non si può tornare ulteriormente a questa sensazione di “assoluta mancanza di scampo” – sono l’epopea di un mondo contadino sfrondato da ogni romanzesca e leggendaria aura bucolica e illuminato dall’interno, fin negli angoli più minuti della sua disumana grettezza ed insopportabilità. La scrittura di Innerhofer non conosce filtri, maschere, orpelli, si sostiene senza aiuti, senza ricorrere ad artifici retorici, si sostiene, sembrerebbe, per il greve peso delle parole e delle frasi che devono percorrere il greve mondo che le ha generate, attraverso il susseguirsi delle lente stagioni, ognuna con il suo carico di solitudine, di sfruttamento e di assoluta aridità emotiva.

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Heimito von Doderer, “Le finestre illuminate”

HEIMITO VON DODERER – Le finestre illuminate – Einaudi

“Il firmamento terreno di ciascuno è pieno di stelle inferme, che ammiccano e palpitano come quelle celesti; diverse, da migliaia di finestre, per migliaia di occhi solitari e certo perfettamente adatte ad ognuno. Chi va alla finestra, come qui il nostro consigliere, va sotto la propria costellazione; e certo bisognerebbe interpretare questo lontano e fervido appello della tenebra, se ne fossimo capaci.”

Indispensabile il sottotitolo, “Come il consigliere Julius Zihal divenne uomo”, che von Doderer lascia cadere sotto le sue finestre illuminate con tutta la grazia un po’ aristocratica, la sorridente ironia, la benevola arguzia dello scrittore di razza che tiene saldamente il controllo della sua materia narrativa, che la guida, la sprona o la contiene nel difficile compito di rendere conto al lettore di quel delicato e sempre un po’ misterioso avvenimento che è una metamorfosi. Perché di questo tratta il romanzo, del processo mediante il quale il consigliere Julius Zihal, da perfetto e irreprensibile burocrate si trasforma in un uomo, e cioè, contrariamente a ciò che avviene in natura, dove la metamorfosi si compie come progressivo perfezionamento, si degrada e cade dall’empireo astratto della sicurezza, della completezza e della perfezione per ritrovarsi parte di quel caos in cui si dibatte, per fortuna a volte felicemente, l’imperfetta umanità.

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Ludwig Wittgenstein, “Diari segreti”

LUDWIG WITTGENSTEIN – Diari segreti – Laterza

“Si potrebbe fissare il prezzo dei pensieri. Alcuni costano molto, altri poco. E con che cosa si pagano i pensieri? Io credo così: con il coraggio” (Ludwig Wittgenstein)

Per chi ama la letteratura austriaca del Novecento, imbattersi nei “Diari segreti” di Ludwig Wittgenstein nella ormai quasi introvabile edizione Laterza è una vera fortuna, soprattutto per chi, come me, non sia sufficientemente attrezzato per affronatre la lettura del “Tractatus logico-philosophicus” in modo consapevole e, soprattutto, utile alla comprensione della sua influenza sulla cultura mitteleuropea del secolo scorso e sulle peculiarità delle forme artistiche di un tempo – e di un luogo – così tormentato, ma così fervido, terreno di incubazione di intense voci poetiche e di una grandissima prosa, di una letteratura che fiorisce comunque sul limitare del dire filosofico. Una fortuna perché gli scritti privati del filosofo non sono separati dalla sua speculazione ma, anzi, in un certo senso nascondono il seme da cui essa si genera; perché il volume è curato in modo generoso e attento da Fabrizio Funtò che lo arricchisce di utilissimi apparati e note e, infine, perché è introdotto da un lungo saggio di Aldo Gargani, dal titolo “Il coraggio di essere”, un libro nel libro, una guida che conduce il lettore, passo dopo passo, non solo all’interno dei “Diari segreti”, ma anche – e soprattutto – all’interno del pensiero di Wittgenstein, ad individuare le spinte generatrici del suo lavoro intellettuale. Un saggio che, nella mia esperienza di lettrice, si colloca, come un anello all’interno di una stessa catena, a fianco delle altre opere che Gargani dedica a due delle pietre miliari del Novecento letterario austriaco: “La frase infinita: Thomas Bernhard e la cultura austriaca” e “Il pensiero raccontato. Saggio su Ingeborg Bachmann”. Una letteratura che è esigenza etica della verità – o almeno “scoperta del contenuto di verità della menzogna”, come afferma lo stesso Bernhard – ma che, nel suo dispiegarsi, nel suo distendersi e fiorire, costruisce trame avvincenti mediante un pensiero che non è asservito ai fatti, ma che li disarticola e ricompone all’infinito; una poesia che è “ricerca di frasi vere”, per usare un’espressione cara alla Bachmann, e quindi, per se stessa, utopica, perché unisce all’acutezza dell’esigenza etica della verità la nostalgia di una parola che sosta ai limiti dell’indicibile, di ciò che non può essere detto ed esplicitato. Una letteratura costituita da esercizi di pensiero e di linguaggio, esattamente come di esercizi di pensiero e di linguaggio è fatta la speculazione filosofica di Wittgenstein.

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Ingeborg Bachmann, “Tre sentieri per il lago”

INGEBORG BACHMANN – Tre sentieri per il lago – Adelphi

“Ho scoperto di non appartenere più a nessun paese, non ho più nostalgia di nessun posto, una volta era diverso, una volta credevo di avere un cuore e di appartenere all’Austria. Ma tutto passa prima o poi, il cuore vien meno e una certa mentalità va perduta, solo che sento in me qualcosa che sanguina, e non so cos’è”.

Così afferma Franz Joseph Eugen Trotta, il grande amore doppiamente perduto, nei pensieri di Elisabeth, la protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta, colui che, “uomo esiliato e perduto”, le aveva fatto sentire che “l’estraneità era il suo destino”. Così pensa Elisabeth, così scrive Inge in questo racconto che, ricchissimo, disturbante ed estremamente raffinato, conclude quella parte della sua produzione che l’autrice volutamente destina alla pubblicazione, e suona come un addio, la chiusura di un cerchio, un ritorno all’origine per estinguerla definitivamente. La raccolta esce nel 1972, l’anno dopo la Bachmann morirà tragicamente a Roma.

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Hugo von Hofmannsthal, “La donna senz’ombra”

HUGO VON HOFMANNSTHAL – La donna senz’ombra – SE

donna-senz'ombraElogio dell’ombra, dell’imperfezione e del limite, perché solo l’ombra, l’imperfezione e il limite, e quindi l’idea della morte, intesa come consapevolezza della ineluttabilità della fine, hanno in sé i germi della fecondità e quindi la forza capace di generare la vita, e quella irrinunciabile vita dello spirito che è la creazione artistica. A circa un secolo dalla pubblicazione della “Storia straordinaria di Peter Schlemihl” di Adelbert von Chamisso, Hugo von Hofmannsthal si impadronisce di questo fecondo topos letterario, lo reinterpreta, lo rielabora, lo stravolge e se ne lascia conquistare, creando la prosa cristallina e rarefatta del suo ultimo testo narrativo, apoteosi e vertice di una produzione che sarà successivamente dedicata unicamente al teatro. Nata contemporaneamente al libretto per l’omonima opera di Richard Strauss (rappresentata per la prima volta a Vienna il 10 ottobre 1919), “La donna senz’ombra” si trasforma ben presto nelle mani di Hofmannsthal in un racconto autonomo che sottopone il suo autore ad uno sforzo compositivo notevolissimo, testimoniato dagli stralci tratti dai suoi epistolari, riportati nella Postfazione alla presente edizione curata da Elisabetta Potthoff. Un lavoro che procede nel segno della sottrazione, della decantazione e della purificazione di una trama nata sotto l’insegna della potenza icastica della fiaba e della vertigine della polisemia, dell’accumulo di significati e quindi di possibili interpretazioni.

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Peter Handke, “La notte della Morava”

PETER HANDKE – La notte della Morava – Garzanti

“La notte della Morava”, uscito in Germania nel 2008, non è l’ultimo romanzo di Handke, ma possiede tutte le caratteristiche dell’opera definitiva: le sue pagine sono il resoconto poetico di una vita, la riscoperta e la rilettura di un’origine e di una appartenenza, il canto di una balcanicità perduta, la lotta all’ultimo sangue condotta fino al rifiuto, fino al silenzio, contro la scrittura, contro un destino e una vita ad essa dedicati. E ancora: un pellegrinaggio a tappe verso luoghi e paesaggi dell’anima, un viaggio interiore nella memoria e nella consapevolezza della propria essenza e poi il bilancio di un amore, così conturbante e violento da essere desiderato, ma innumerevoli volte rifiutato e avvertito come un pericolo. Handke, che è uno scrittore esigente con i suoi lettori, con il suo stile ostico, spesso criptico, con le sue favole metafisiche, con quegli sprazzi di poeticità così rari, improvvisi e avari che sembrano evitare di proposito qualsiasi possibilità di condivisione o di riconoscimento, con questo romanzo li travolge letteralmente, concedendo loro l’accesso ad una materia narrativa fantastica ma anche evidente trasposizione di esperienze e memorie reali, oltretutto strutturata in modo geniale ed accattivante, in grado di mantenere uno schermo, una sorta di residua distanza tra l’autore e la narrazione e quindi tra l’autore e il lettore.

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Ingeborg Bachmann, “Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte”

INGEBORG BACHMANN  – Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte – Adelphi

bachman-letteratura“Ferito di realtà e in cerca di realtà, consegna la propria esistenza alla lingua” (Paul Celan)

Il testo raccoglie le cinque lezioni tenute dalla Bachmann nell’inverno 1959/60, con le quali fu inaugurata la cattedra di Poetica presso la Johann Wolfgang Universitat di Francoforte sul Meno. Il ciclo fu intitolato “Problemi di poetica contemporanea”.

 A lezione da Inge. Appunti

I Lezione: Domande e pseudodomande

Dalla cattedra da cui sta parlando, Ingeborg Bachmann dichiara che non le sarà possibile insegnare nulla, bensì, forse, risvegliare qualcosa: “pensare insieme la disperazione e la speranza con cui alcuni mettono in discussione se stessi e la nuova letteratura”. C’è una sola e grave domanda su cui ogni scrittore deve prendere posizione, ed è quella che riguarda la giustificazione della sua esistenza: “Su che cosa scrivere, per chi, e a che cosa dare voce al cospetto degli uomini, in questo mondo?”.