VACLAV HAVEL – “L’Opera dello Straccione e altri testi” – Garzanti
“Nell’autunno del 1963 l’atmosfera culturale piuttosto stagnante di Praga, la “città d’oro”, che sembrava immersa in un sogno destinato a durare immutato nei secoli, come le statue di Braun che dal ponte di Carlo si specchiano nella Moldava, fu improvvisamente scossa da un fremito: un giovane e sconosciuto autore, approfittando dell’allentarsi dei freni della censura, frutto tardivo di una cauta destalinizzazione, aveva portato sulla scena di un teatrino sperduto nei vicoli della Città Vecchia una commedia che pochi avevano visto – il teatro aveva solo duecento posti – ma di cui tutti parlavano e che tutti volevano vedere.” Sembra l’incipit di una favola, ma è l’inizio della Postfazione di Gianlorenzo Pacini.
“Sapere le cose significa la morte, così come il non saperle”
“Franz non è adatto a vivere. Franz non guarirà mai. Franz morirà presto. Di certo tutti noi siamo apparentemente adatti a vivere. Perchè ci siamo rifugiati nella bugia, nella cecità, nell’entusiasmo, nell’ottimismo, in una qualche convinzione, nel pessimismo, oppure in qualcos’altro ancora. Ma lui non si è mai rifugiato in nessun ricovero sicuro. E’ assolutamente incapace di mentire, così come è incapace di ubriacarsi. Non ha il benchè minimo rifugio, non ha asilo. Perchè è esposto a tutto ciò di fronte a cui noi siamo protetti. E’ come se fosse nudo fra persone vestite. Non che sia tutto vero ciò che dice, ciò che è, ciò che vive.
“Forse moriremo di fame. Oppure di sfinimento. Forse un diluvio sommergerà la casa. Forse saremo attaccati da insetti venuti da un pianeta sconosciuto, che ci succhieranno il midollo. Forse qualcuno verrà ad ammazzarci. Forse ci ammazzeremo tra noi. Forse vivremo ancora per molti anni e moriremo di cancro. L’unica grazia che Dio ci ha fatto, ammesso che esista, è averci nascosto il modo in cui moriremo. (Pausa) Averci fornito di immaginazione, in compenso, non è stato particolarmente caritatevole”.
“Europeana”, sottotitolo: “Breve storia del XX secolo”, opera di Patrik Ourednik, lo scrittore praghese che è anche drammaturgo, linguista e redattore di enciclopedie, è un libro raffinatissimo, intelligente, arguto e divertente che, già tradotto in almeno venti lingue, merita un’ampia diffusione nel nostro paese, se non altro per il contributo che può dare alla consapevolezza con cui i contemporanei guardano al secolo da poco terminato. L’attenzione del lettore è subito catturata dalla forma ormai quasi anacronistica scelta dall’autore: le pagine del libro costituiscono “la voce” di un tradizionale dizionario enciclopedico, con tanto di titoletti ai margini del testo per evidenziare gli argomenti trattati nei vari paragrafi e tavole fotografiche finali dotate di didascalie numerate. Ovvio quindi attendersi la completezza, quella che ci si aspetta da un sapere enciclopedico e, pagina dopo pagina, risulta sempre più evidente che davvero Ourednik è riuscito a condensare in 150 pagine di formato ridotto, in una narrazione che procede con un ritmo incalzante (geniale la scelta di non usare mai le virgole per costringere il lettore a procedere di slancio verso la fine di ogni periodo), la storia di un secolo così complesso. Quello che però conquista il lettore è ben altro.
Ancora un gioiellino della casa editrice :due punti, e ancora Patrik Ourednik, questa volta come curatore di un estratto dell’immenso diario di Jan Zabrana (decine di quaderni e taccuini datati e numerati ritrovati dopo la sua morte avvenuta nel 1984). Non ho bisogno di trovare le parole giuste per definire queste pagine, perché lo fa lo stesso autore, in modo assolutamente efficace, unendo allo sconforto e alla rassegnazione la levità della poesia: “Che cosa sono questi appunti, queste note a margine, queste parole prese a caso, appuntate in un quaderno come farfalle? Un’opera sospesa.” E ancora: “Queste note non sono un diario ma una diagnosi. La mia”. Zabrana è lo scrittore senza opera, che vive dolorosamente la consapevolezza di aver perduto, a causa dell’oppressione del regime comunista in Cecoslovacchia, la possibilità di scrivere.
Per chi ama la letteratura ceca del Novecento, il bel saggio di Claudio Magris “Praga al quadrato”, riportato in “Alfabeti”, rappresenta una guida ricca e di agevole lettura, in grado di illuminare almeno alcuni degli aspetti di quella cultura mitteleuropea resa così affascinante e inconfondibile dal suo essere sintesi fra lo stile “autunnale e burocratico” dell’impero e la “dolente interiorità” ebraica. Magris propone una sorta di viaggio nella produzione poetica e narrativa di molti autori noti e di moltissimi meno noti di quello che chiama “il mosaico plurinazionale mitteleuropeo”, compilando una sorta di bibliografia della letteratura ceca che, pur rappresentando per il lettore italiano un’indiscutibile ricchezza, rende anche consapevoli di quanto sia difficile reperire molti di questi testi (o perchè non tradotti, o perchè non più ristampati). Personalmente sono sempre alla ricerca di questi libri e sono sempre felice quando, grazie alla rete, riesco a reperirli.
“Le cavie” è l’opera letteraria amarissima ma insieme acuta, scanzonata ed estremamente intelligente di uno scrittore del dissenso, emarginato dalla vita culturale del suo paese dopo la violenta repressione della Primavera di Praga ad opera delle truppe sovietiche. L’opera di un intellettuale e giornalista fondamentalmente politico (non a caso, dopo il crollo del regime comunista, nel 1990, ricoprirà, anche se per pochi mesi, la carica di viceministro degli Interni della Repubblica Ceca) che, nelle sue pagine, non può fare a meno di riflettere sui comportamenti dell’uomo quando, più o meno volontariamente, si trova a dover interagire con i suoi simili, che verifica tali comportamenti in situazioni diverse, che li raffigura e li descrive dopo averli osservati in modo apparentemente distaccato, senza ombra di coinvolgimento emotivo, giungendo persino a punte di perversa crudeltà.
“Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiarsi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari.”
“..Si tratta di un uomo smunto, con le guance grigie e gli occhi immobili rivolti in preghiera verso il cielo. La stella gialla degli ebrei cucita sul cappotto azzurro scuro è ricoperta di polvere, ma stranamente non reca tracce di sangue. La mano di qualcuno tra la folla chinata sull’uomo spolvera la stella, come se volesse far credere agli altri che cerca di scoprire l’identità del morto, e qualcuno quasi impercettibilmente mormora Yisgadal veyiskadash shmé rabbo, sia magnificato e santificato il Suo nome grande…”