CESARE PAVESE – “Feria d’agosto” – Einaudi
“A quei tempi sapevo soltanto che niente comincia se non l’indomani”
I libri di Cesare Pavese hanno il colore e il sapore di una dolente familiarità, appartengono al mio vissuto di lettrice come un luogo che si è a lungo frequentato, in cui forse non si vorrebbe più tornare, ma che è destinato a rimanere per sempre come ammantato da una sorta di aura, ricca di ricordi condivisi. Difficile scordare le colline, la luna, i falò, le storie di quella folla di personaggi che sanno di terra, di fatica e di silenzi, difficile non avvertire la presenza di quel passo lungo, destinato a ripercorrere sempre le strade del ricordo, difficile non provare un cocente rimpianto per una così acuta e dolorosa intelligenza. Ci sono però due libri che hanno trasformato la mia affezione per Pavese in ammirazione, questi libri sono “Feria d’agosto” e “Dialoghi con Leucò”. In queste pagine sembra rivelarsi lo scopo del lavoro letterario di una vita, a queste pagine sembrano tendere le pur brillantissime opere precedenti; un lungo viaggio attraverso temi e storie, attraverso l’affinamento di uno stile che si è fatto via via più pensoso e riflessivo. “Feria d’agosto” è un passo in profondità, il successivo, “Dialoghi con Leucò”, già rivela la maturazione di quella prosa poetica nella quale si può intravedere la promessa di una nuova maturità, il passo successivo, il suicidio, lascia tutti orfani di quel Pavese che non conosceremo mai e la bellezza di quella prosa non fa che acuire il rimpianto.