Traduzione di Silvia Cecchini
“E non piangeva per se stessa, ma per lui: nell’ora subito dopo la sua nascita ella aveva guardato nei suoi occhi scuri e aveva visto qualcosa che sarebbe rimasto là per sempre, lo sapeva, il pozzo indicibile di una solitudine remota e intangibile: ella sapeva che nel suo utero scuro e pieno di dolore era venuto alla vita uno straniero, nutrito dai contatti perduti con l’eternità, fantasma di se stesso, incubo della sua stessa casa, straniero per sé e per il mondo. O, perduto!”
In un piccolo e prezioso libro costituito da una lunga conversazione tra Thomas Bernhard e Peter Hamm, dal titolo “Una conversazione notturna” (uscito recentemente presso le edizioni “Portatori d’acqua”, tradotto da Elsbeth Gut Bozzetti, curato da Micaela Latini e Mauro Maraschi), il grande autore e drammaturgo austriaco rivela, tra le tante altre cose, che una delle sue prime esperienze di lettura significative è stata il romanzo di Wolfe (“Ma è stato con Thomas Wolfe che mi sono reso autonomo come lettore, è stato lui il primo ad affascinarmi davvero”), da lui definito “grandioso”, l’opera di un autore “incredibilmente vitale, giovane e intelligente […] che sulla carta era un tornado”. Proprio la vitalità sembra essere la qualità maggiormente apprezzata da Bernhard in un’opera letteraria: “La maniera in cui qualcuno è in grado di riversare compiutamente sulla carta ciò che sono un uomo e il suo mondo in termini di vitalità. Senza indebolirla in alcun modo. La maggior parte degli autori non scrive niente di vitale o di vivo”. Il lettore è in grado di cogliere la vitalità di un’opera perché si sente felicemente aggredito e travolto da qualcosa che avverte come assolutamente nuovo e sorprendente, in un certo modo avventuroso, perché si sente partecipe di un’avventura che poco ha a che fare con qualsiasi tipo di trama, ma che attiene invece ai lineamenti di uno stile unico, di un unico modo di avvertire e di soddisfare il proprio bisogno di espressione, di scegliere e gestire i propri tempi, di rivelare, celare, riproporre sotto forme diverse, l’essenziale, che sfugge e attrae e che ha bisogno della scrittura, ma di quell’unico tipo di scrittura.
Wolfe è un tornado e il suo romanzo non potrebbe essere più lontano dalla prosa bernhardiana, dalla musicalità delle sue fughe sintattiche, dalle sue costruzioni razionali che corteggiano l’ossessione e la follia, eppure tra le sue pagine si avverte la stessa energia inesauribile, la stessa incapacità di aderire a modelli precostituiti di sicuro effetto, la stessa intransigenza nei confronti della debolezza di chi scrive per diletto e per ottenere consenso. Sono autori che non scrivono per compiacere il lettore, scrivono perchè non ne possono fare a meno, si potrebbe dire che sono ciò che scrivono, “si riversano sulla carta” per usare l’espressione bernhardiana e proprio per questo in un primo momento lasciano il lettore interdetto e conquistano solo chi possiede la perseveranza e forse almeno un pizzico della stessa vitalità. Ma, quando si rivelano, restano indimenticabili.