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letteratura italiana

Trevisan, “I quindicimila passi”

 VITALIANO TREVISAN – “I quindicimila passi” – Einaudi

“Me ne vado, lascio per sempre alle mie spalle tutto questo schifo cattolico democratico artigiano industriale. Lascio per sempre questo disgustoso buco di provincia, pieno solo di persone ottuse pericolose e pericolosamente malvagie”.Una società bigotta e chiusa nel proprio egoismo. Una tradizione culturale segnata dall’impronta reazionaria del cattolicesimo. Un paesaggio naturale deturpato dalla stupidità dell’uomo. Uno stile di scrittura che insiste con foga ripetitiva sulle ossessioni del protagonista di nome Thomas. Il romanzo di Vitaliano Trevisan è profondamente debitore dell’opera di Thomas Bernhard. Il Veneto descritto nel libro è parente prossimo dell’Austria “infelix” del grande scrittore di Salisburgo. E Trevisan, con la sua spietata urgenza di mettere a nudo l’insensatezza che domina le azioni dell’uomo, non ce lo fa mai rimpiangere. Dedicato a chi ha ancora voglia di un libro “scomodo”.

Questa è la storia di una mente assediata, di una liberazione e di una fuga, tutto nell’arco di un lunghissimo tragitto a piedi. Thomas conta i passi. Da casa alla questura, millecinquantatre passi. Da casa al tabaccaio, settecentonovantuno, da casa allo studio del notaio Strazzabosco a Vicenza, quindicimila passi. Conta con una precisione metodica, senza mai lasciarsi distrarre, perché il vuoto che si porta dentro va riempito di incombenze continue, contare, camminare, calcolare, gesti esatti, netti, in un tentativo ossessivo di fuga dalla solitudine e dalla morte che lo incalzano. Intorno, la follia di una strada che ai suoi occhi è sempre una sola, cinta da quello che a lui pare assurdamente un bosco e che invece non è niente, solo veleno e discarica e cancrena urbanistica di una provincia veneta ridotta a una scheletrica e desolata terra industriale. Alle sue spalle, Thomas non si lascia dietro anima viva, scomparsa ormai la sorella, scomparso il suo assassino già lontano, partito per chissà dove, evaso dalla sue casa, da un delirio amoroso ossessionante, dai genitori da sempre assenti, da un fratello che gli è apparso fin da subito straniero perché troppo lucido, troppo responsabile. Ma niente è come sembra: lungo la strada il protagonista avverte i segni di una tara psichica che lo assedia e lo confonde, le schegge di un orrore che lo investe in pieno. La vicenda si snoda in un opprimente clima di distruzione e di autodistruzione. La cornice è il ricco Nord-Est. Soldi e incubi metropolitani fatti di capannoni industriali, di strade trafficate, di animali spiaccicati sull’asfalto, di sviluppo economico ed edilizio disordinato, arrogante, alienante. I personaggi principali sono ipersensibili, allucinati, stralunati, borderline sull’orlo della psicosi e perciò capaci più degli altri di cogliere le dissonanze, le contraddizioni, la violenza, i mutamenti anche più impercettibili della realtà. Il protagonista, Thomas, è uno spigoloso solitario che bene esprime, enfatizzandola, una soggettività lucidamente consapevole della propria insensatezza. Il ritmo della narrazione è incalzante, convulso, nevrotico. Le ruminazioni mentali dei personaggi (sempre riportate dall’unico personaggio) sono rese espressive dalle loro tormentose ripetizioni. L’intreccio riserva nel finale un inquietante colpo di scena, che getta una luce sinistra sull’intera vicenda. Ma non sono gli stilemi del thriller che incantano il lettore, bensì la quantità di verità che il romanzo contiene, l’invettiva così vibrante, lucida e impietosa da diventare liberatoria, la capacità di analisi di questo personaggio-autore che non teme l’abisso, ma lo percorre fino in fondo, rifiutando sdegnosamente ogni accomodamento consolatorio. Quello che attrae il lettore è il ritmo magistrale dei monologhi, unico metodo espressivo in un romanzo dove non esistono dialoghi tra personaggi, che rimandano fatalmente alla natura teatrale di questo testo e di questo scrittore. Chi ama Bernhard, si accosterà con piacere all’opera di Trevisan.“La vita ci spaventa, pensavo, ma la morte ci spaventa ancora di più, questa è la verità, pensavo nella veranda. Tra il disgusto e il nulla, ho finito sempre per scegliere il disgusto, il disgustoso e l’insopportabile al nulla, penso. Come spiegare altrimenti tutti questi anni di inutile resistenza, tutti i diversivi messi in atto, in una assurda strategia della dilazione, per tutti questi anni? Vivere ci sembra a volte davvero intollerabile, ma l’idea di morire ci è sempre altrettanto intollerabile”. 

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