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letteratura italiana

Michele Mari, “Di bestia in bestia”

MICHELE MARI – Di bestia in bestia – Einaudi

Tutto ciò che viene nutrito è per sua natura destinato a crescere, che si tratti di un organismo vivente, oppure di una passione, o di una ossessione. E queste ultime ancora di più, dovendo rispondere esclusivamente alle proprie leggi interne, e non dovendo sottostare ad alcun limite di spazio e di tempo. Una passione così totalizzante da diventare ossessione, una volta cresciuta e diventata adulta può, in determinate condizioni, dare i suoi frutti. A mio parere è questa l’origine del romanzo che lo stesso Mari definisce “come una vendicativa resa dei conti con una giovinezza interamente dedicata alla letteratura”, oltre che, in modo assertivo, totalizzante, ma anche emozionante, “il libro della mia vita”. Non entro nel merito delle differenze tra questa nuova versione e quella uscita in prima edizione nel 1989, abbondantemente spiegate e motivate dall’autore nella Nota al testo; mi basta sapere che tutte le correzioni sono state “a togliere” e che quindi “l’attuale versione, in ogni sua oltranza di lingua e di stile, era già tutta nella primissima”.

Un libro della vita, di una vita che ha imparato presto a subire la concorrenza sleale dei libri, come dice Mari, riprendendo un’affermazione di Hermann Hesse, come sanno quei lettori che sono consapevoli di appartenere, forse solo ad un ramo collaterale, ma comunque alla stessa famiglia di ossessionati. “E’ questa una storia di mostri. Procul inde, chi non ne sostiene le orribili forme”, è la minacciosa epigrafe che, come avvertimento, l’autore pone all’inizio di quella che mi appare come la più gotica delle sue opere, insieme summa, omaggio e rivisitazione di un genere amato e percorso con la baldanza dell’avventuriero, con l’affezione di chi di queste storie si è nutrito fin dalla più tenera età e con la cultura raffinata sino all’erudizione dello studioso. Una storia di mostri necessita della propria geografia, di propri paesaggi ed atmosfere e, soprattutto, di una dimensione metafisica, pena il decadimento nei clichè terribilmente noiosi del fantasy. Perché “… non c’è conflitto che non ci renda uguali al nemico, non c’è abisso in cui si possa guardare impunemente” si legge ne “I demoni e la pasta sfoglia”. Quindi legga solo chi sa di poter sostenere le orribili forme del mostro che alleva in sé, ci ammonisce Mari, prima di portarci nelle regioni sperdute, abitate da barbari dementi, dove, in mezzo ad una sterminata landa boreale, spazzata dal Tarasso, il leggendario vento del Nord, dotato di incredibile forza distruttrice, sorge il castello di Osmoc, protagonista e insieme vittima dell’intera vicenda. Osmoc che, per uno dei giochi linguistici nei quali l’autore si diletta, è anagramma di cosmo, forse omaggio a quella “dimensione metafisica e assoluta dell’orrore”, cosmica appunto e quindi non eludibile, che Mari, sempre ne “I demoni”, attribuisce ad uno dei suoi numi tutelari, Lovecraft, un autore estremo a cui lo lega una sorta di devozione. Osmoc, anagramma di cosmo e il suo gemello mostruoso, Osac, anagramma di caos, popolano il castello labirintico in cui la vicenda si svolge e costituiscono una cosmogonia in un precario equilibrio che, inevitabilmente, si infrange quando viene in contatto con l’altro da sé. Mari ha scritto una storia gotica avvincente, metafisica e potentemente allegorica, una storia di orrore e di conoscenza, di amore e di morte, strutturata, come suo solito, mediante una forte valenza narrativa, unita ad una sapiente gestione del flashback, che diventa una storia seconda, in grado di sospendere avvenimenti e colpi di scena per dare spazio a quello che appare come un vero e proprio trattato sull’amore. Il romanzo, con il suo tema del “dualismo tra cultura e natura che fa di ogni uomo un ossimoro”, reso oggettivo dal rapporto tra i gemelli Osmoc (colto, raffinato, spirituale) e Osac (brutale, forte, stupido) deve molto a “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson e al tema del doppio che ossessiona tutta la sua produzione. Un debito che però va oltre al semplice omaggio, perché Mari rende oggettive le due nature del doppio, le espelle da sé, per misurarne tutto l’orrore, le fa interagire fino al conflitto, fino alla lotta, fino alla dissoluzione. La cultura che si serve della natura per supplire alle proprie mancanze non riesce a dominare a lungo la bestia e soccombe, come soccombe la stessa bestia, vittima di una bestia ben più potente, che assomiglia ad una visione, o ad una divinità, o ad un incomprensibile incubo. Una germinazione di mostro da mostro e di incubo da incubo che ricorda le immagini da sogno di Kubin, “tratteggiate come se fossero viste attraverso la nebbia”. Di bestia in bestia, appunto, si procede, di orrore in orrore, quando nessuna barriera, né culturale, né razionale, né sentimentale, può più frenare l’irrompere dell’istinto bruto. Se i labirinti sotterranei del castello, le cantine, le torri, i passaggi segreti, sono il regno di Osac – il caos –  la biblioteca è il regno di Osmoc – il cosmo – il luogo della conservazione e dell’ordine più assoluto, estremo baluardo a difesa dalla furia della natura e delle sue tempeste di neve all’esterno dell’edificio, e dalla violenza della forza bruta che si nasconde all’interno delle mura. “Fui colpito dal rigore impeccabile con cui erano ordinati i volumi. Tanti, in una biblioteca privata, non ne avevo mai visti. Era uno spettacolo davvero imponente: immaginatevi decine di migliaia di libri in duplice ordine dal pavimento al soffitto, allineati con una precisione assoluta, e debitamente divisi secondo i criteri più saggi, quali per epoca e fra questi qualaltri (e s’intende i più antichi) per luogo di stampa e per torchio, altri per materia e nazione ed autore (sorreggendosi vicendevolmente i tre ordini, e l’uno inscritto mirabilmente nell’altro ed a sua volta comprensivo del terzo, sì da far vaso quel che pria era capito, e miracol! vedi tonda la trigona forma)…”. Una biblioteca che non è solo un luogo fisico, ma che rappresenta l’habitus mentale di Osmoc, che è Osmoc; i suoi libri sono la sua vera essenza al punto che il loro linguaggio è il suo linguaggio, le verità che contengono sono la sua verità, è nelle loro pagine che egli cerca e trova l’interpretazione del reale, che si sforza di comunicare agli altri con la precisione e la pedanteria dello studioso che deve riportare con la massima precisione le sue fonti. Siamo su un terreno che Mari percorre con estrema facilità, perché la letterarietà è una delle cifre costitutive del suo stile, e in queste pagine si avverte come l’autore ceda facilmente e felicemente alla tentazione dell’erudizione, perseguendo una sorta di delirio citazionale, perché “la figlia della mente è di un’esattezza disperante”. E’ qui il cuore del romanzo, tra gli scaffali di questa biblioteca, tra i libri tanto amati da Osmoc – e da Mari – il suo bene più caro; qui e nella concorrenza sleale che i libri fanno alla vita, in quella cultura che è “luce e salvezza”, ma anche “fardello accademico e impedimento alla vita”, “trionfo e disfatta”, “orgoglio e lutto”. Il lungo racconto di Osmoc, parte centrale del romanzo, costituisce l’apoteosi di uno stile tanto alto e sublime da rivelare – e sono parole dell’autore – la propria “componente nevrotico-feticista”, ma il lettore ben presto comprende quanto questa sublime altezza formale sia pienamente giustificata, se non addirittura richiesta da quel dissidio tra spirito e carne, tra anima e corpo, tra infinito e finito, che è chiamata ad esprimere, “questa insanabile e fondamentale schizofrenia”. “Perché le anime sono discrete, e appena parlano i corpi, si ritraggono timidette in se stesse, frastornate da un dialogo identico a quello che torce le membra del manzo del sorcio le pinne del pesce il pistillo del fiore… Quando regna quel potente signor della carne lo spirito sbigottito vagola sperduto nell’aere in attesa di rientrare in sue legittime sedi, escerpato, in tristissimo esilio…” Perché Osmoc, che tutto impara dai libri, dai libri impara anche l’amore, eleggendo a suoi maestri gli appassionati poeti della lirica cortese, che gli insegnano ad amare tutte le donne per non amarne nessuna, che la natura d’amore è la natura del sogno, che lo spirito anela al sublime e che a tale tensione “gli è metafora e mezzo l’amore”. Quando l’amore si fa carne e sangue e avanza con il passo e lo sguardo vivo di una donna vera, a nulla vale il tentativo di tenere separati l’amor sacro e l’amor profano per impedire all’amore di corrompersi e di finire. Perché questo non è dato ai mortali e la pena per chi ha osato tanto è la morte della donna amata. Il trattato sull’amore finisce, il racconto di Osmoc anche, il dissidio insanabile tra corpo e spirito procede, di bestia in bestia, fino alla dissoluzione finale.

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Alessandra
10 years ago

Mi piace molto lo stile erudito e affabulante di Mari. Finora di suo ho letto solo Verderame, che mi aveva colpita per la singolarità e l’inventiva della trama. Adesso sarei tentata di approfondirne la conoscenza proprio con questo libro…

Cristina
10 years ago

Credo che Mari sia lo scrittore che attualmente sa usare meglio la lingua italiana. Ho letto tutto di lui e lo stimo moltissimo. PEr qu

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