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letteratura italiana

Marco Steiner, “Isole di ordinaria follia”

MARCO STEINER – Isole di ordinaria follia – Marcianum Press

La pioggia gialla

“Su quest’isola il vento e la rabbia hanno arato la terra con unghie sfibrate, hanno seminato note in un vuoto spartito,/ e la terra s’è mossa rotolando nel vento, ha raggiunto la riva, s’è infilata/ nel mare, s’è imbevuta di nuvole e sale, ha allungato alghe e radici per/ raggiungere e afferrare Venezia, perchè Venezia è l’utero delle storie di/ mare.”

Ci sono libri che nascono da una passione intelligente, dal desiderio di assecondarla, di nutrirla, di condurla ad esiti inaspettati e di lasciare che poi continui a percorrere la sua strada. In questo libro – che parla di follia, che si avvicina al buio spaventevole della follia, anzi, che ad esso aderisce penetrandolo – si avverte, decantata e modulata, la passione per il mare, per quella città sempre sognata e forse mai del tutto compresa nella sua inesauribile essenza che è Venezia, per le vite degli uomini spesso avviluppate intorno ad un nucleo doloroso, per il mondo circoscritto delle isole, luoghi conclusi serrati in se stessi, così affascinanti per qualsiasi immaginario letterario, per le tracce indelebili che la letteratura è in grado di incidere nella mente e nell’anima e, infine, per il viaggio, reale o metaforico che sia.

Perchè questo libro è un viaggio in profondità, verso un mondo a cui è difficile avvicinarsi senza sentirsi turbati, ma ad ogni passo il lettore avverte, mentre si inoltra nella peggiore delle solitudini, la presenza di una guida. Che è poi la presenza di chi a questo mondo ha guardato da diverse direzioni ma con la stessa pietas e che ha lasciato in queste pagine la sua voce che con le altre si mescola, arricchendosi. Sono pagine di letteratura e di fotografia, letteratura assorbita e fatta propria dall’autore che la utilizza come punto di partenza, come fonte di ispirazione dichiarata, forse origine di una scrittura personale che ad essa guarda mentre costruisce la propria originalità; fotografia, grande fotografia, che regala spessore e fascinazione al dramma, oppure lo documenta e, in entrambi i casi, costruisce un controcanto alle parole che le inchioda nella memoria. 

C’è bisogno di forza d’animo per avvicinarsi all’isola di San Servolo, per entrare nelle stanze dell’ex manicomio, e forse provenire da Venezia, da quella felice illusione dove terra e mare generano un’indiscussa magia, aiuta a mantenere teso il filo d’Arianna del ritorno. C’è bisogno di tutta la forza del mito per dare voce alla follia, per avvicinarla ed illuminare in essa ciò che è umano e comprensibile e per tentare, con grazia e compassione di renderlo visibile. Grazia e compassione per quella dolente umanità che con sorpresa e commozione si scopre essere così vicina al mondo dei cosiddetti sani, a condizione di rompere il muro di silenzio che la imprigiona. 

Tante voci dunque, che l’autore chiama a raccolta sin dall’introduzione – “L’idea” – come attestazione di stima e ammirazione, ma anche come viatico per sé e per il lettore nell’accingersi ad intraprendere il cammino: quelle di Gianni Berengo Gardin e di Marco D’Anna che, insieme alla sua, ne “Il gioco delle perle di Venezia” hanno fatto rivivere l’immaginario di Hugo Pratt, hanno reso visione il fumetto e la fotografia in nome di una città “fatta di bellezza, sogni, magie, illusioni”, e che hanno poi rivolto lo sguardo alle isole della laguna, alla terribile condanna a vita dei ricoverati nel manicomio di San Servolo, attivo dal 1725 al 1978, l’anno della legge Basaglia. Ma anche le voci degli scrittori, degli insostituibili narratori di storie che a loro volta diventano visioni destinate a generarne altre e che, come dice Steiner, “hanno innescato la struttura di questo libro”: Sebastian Brant con “La nave dei folli”, Jack London con “Il vagabondo delle stelle” e, infine, forse su tutte – perchè in qualche modo risuona dalla prima all’ultima pagina del libro, insinuandosi nella sua stessa struttura  – quella potente, pietosa, accorata e terribile di Niobe, che nel mito provoca con il suo orgoglio di madre la terribile vendetta degli dei e assiste impotente alla morte di tutti i suoi figli, divenendo infine una statua impietrita dal dolore, in grado solo di piangere. 

E’ questo dolore muto che l’autore decide di far parlare, forse perchè è il dolore che si annida al fondo di ogni follia: “C’è un immenso schedario di umanità a San Servolo, è conservato con cura e passione: aprendo i grandi libri e scorrendo le pagine ingiallite si trovano migliaia di storie fra righe ordinate e inchiostri sbiaditi. Si sentono voci che hanno voglia di uscire dalla polvere, di immergersi come lame di luce nel profondo mare delle nostre coscienze o fra le nuvole della nostra fantasia”. La parte centrale del volume è costituita quindi da storie, raccontate, nella finzione letteraria, dai ricoverati di San Servolo, sette storie maschili e sette femminili “come quelle dei figli di Niobe”, ma la prima voce è la sua, è la voce della madre, che funge da guida “di questo fluido viaggio che nasce dal mare di Venezia, un mare che è un budello, una sorta di utero del Mediterraneo perchè quell’acqua si collega a tutti i mari del mondo e da quell’acqua sono nati, partiti e naufragati viaggi, sogni e avventure in tutte le epoche”. Ed è proprio Niobe che apre metaforicamente i cancelli di San Servolo e guida il lettore tra le voci di questo mondo silenzioso. Tutte trovano nella poesia, o meglio, in una prosa poetica, la forma più adatta al racconto della loro più nascosta e dolorosa verità: “L’isola non è un cimitero,/ è altra vita,/ continua,/ diversa,/ fluttua,/ danza,/ mi lascia parlare./ Non bastano gabbie,/ camicie,/ scosse,/ lucchetti e catene,/ non bastano chimiche amnesie,/ l’importante è continuare,/ come acqua che scorre,/ sgorgare, evaporare, cambiare”. 

E allora si immagina l’autore mentre accede allo schedario di San Servolo e si sofferma a leggere annotazioni tanto precise quanto impietose sulla storia clinica di ricoverati da tempo defunti e da tempo dimenticati, che rievoca un campionario di varia umanità, incompresa, disprezzata, malamente accudita, addirittura torturata mediante inutili e inumane cure; penetra nel silenzio dei folli, ridona loro l’identità di un nome e il sollievo di una voce. La parte centrale di questo libro è fatta di storie nate dall’immaginazione di Steiner, da ciò che l’aria di San Servolo, i suoi muri, le tracce delle vite che qui sono state imprigionate e che qui si sono spente hanno dettato alla sua penna e non ha importanza quanto esse siano vicine a ciò che è stato. Le voci raccontano la loro vita precedente, un po’ come le anime dantesche rompono il silenzio vuoto e lo riempiono di giorni, di luoghi, di affetti, di passioni, di incontri, di amore e, indubbiamente, di dolore, di quel dolore di cui la follia si è nutrita. Lo fanno con grazia, con commozione e, a tratti, con poesia: “… e questa storia la potete raccontare,/ ma non scrivete il mio nome,/ perchè la mia non è stata una vita,/ sono stata soltanto una stella diversa,/ senza luce,/ lontana”, “Ci si abitua al silenzio, si sta bene, è morbido, il silenzio avvolge come una calda coperta”, “… anche senza parole,/ si riesce a vivere,/ pensare,/ sentire,/ e sognare”, “Una traccia di colore nel buio può raccontare una storia/ e portare lontano,/ molto lontano”. Sono comunque storie che rievocano il passato e per questo rompono i muri che imprigionano le vite dei loro protagonisti, sono la magia della parola, quella che ai folli è stata negata o che essi stessi hanno dimenticato. Forse per questo uno strano sollievo accompagna il lettore che si inoltra in queste pagine, il sollievo del riconoscimento nella forma espressiva della letteratura che dona al dramma tempi, pause e gradazioni, che lo motiva e lo esalta, lo stempera con la riflessione e gli dona la bellezza della poesia. 

Tutto questo mentre le splendide foto di Marco D’Anna –  “visioni – sogni – incubi” – immortalano angoli del manicomio, attrezzature mediche, pagine di cartelle cliniche, ombre, sguardi, e poi contagiano la laguna con la disperazione di questa umanità ferita a morte, creando paesaggi apocalittici ma esaltanti dove il mare, la terra e il cielo sembrano usciti dagli sguardi dei reclusi che vagano nel labirinto della loro follia: “Con sovrapposizioni e fotomontaggi”, scrive Steiner, “le fotografie  di Marco ci sospingono nelle notti più buie di San Servolo per immaginare e rivivere quello che i figli di Niobe hanno visto, subito, sognato”. E poi, alla fine del libro, quasi come ricchissimo allegato, a mò di documentazione, le foto scattate da Gianni Berengo Gardin a San Servolo negli anni ‘70, prima dell’entrata in vigore della legge Basaglia, che alla formulazione della legge stessa hanno contribuito. Immagini che non necessitano di alcun commento perchè parlano da sole, ma alle quali tanto deve il presente volume: “Leggendo questo libro”, scrive Berengo Gardin, “oggi mi rendo conto che il classificatore che ho consegnato nella mani di Marco D’Anna e Marco Steiner è nato a nuova vita, ha prodotto qualcosa di diverso da un libro di fotografia, è un libro di storie e c’è anche la mia qui dentro, una storia di indignazione per quello che di inumano ho visto. C’è ribellione e ruvida poesia, documentata dalle mie immagini e sensazioni, esaltata dalle visioni di marco D’Anna, arricchita con i germogli di speranza seminati nei racconti di Marco Steiner”. 

Se questo libro è un viaggio, l’ultimo passo, quello che ci riporta a casa, si compie con le parole dello psicologo e psicoterapeuta Antonio Dragonetto, che non solo accompagnano e spiegano, ma anche, consolano. Perchè questo libro “di incontri” ha aperto le porte di “mondi nascosti dal silenzio, rallentati dalla chimica, bruciati dalle scosse elettriche. Mondi desertificati di presenze vitali”, perchè la follia fa paura, anche quella di oggi, “apparentemente meno visibile […] mascherata di normalità, da una passiva adesione a codici preordinati di comportamento che diventano pressione che silenziosamente spezza la mente”, la cosiddetta ordinaria follia, il filo che ci lega a quel passato orrendo che il libro testimonia. Ma Dragonetto non conclude un  libro di documentazione, conclude un libro di letteratura, esaltata dalla fotografia, di intelligente e sensibile immaginazione, che coinvolge ciò che è più umano e condivisibile, un libro di sogni e di visioni, per usare le sue parole “ un libro contro la disperazione. Un libro sulla certezza della cura. Che si chiama rapporto umano”. Per questo nelle frasi che concludono questo lungo viaggio, scritte da uno specialista che non deve essere estraneo ai territori della poesia, c’è speranza, possibilità di comprensione e di compassione: “E’ un libro che ci ricorda, in ogni parola pronunciata o scritta, in ogni immagine, in ogni nota suonata all’organo o alla chitarra, in ogni frammento di volto cristallizzato da un fotogramma, la vita che vi si cela. Quella vita violata, annullata, bruciata dalla vecchia medicina ufficiale e dalla legge, che trova strade sotterranee per riemergere dall’acqua del mare e per farsi ancora sentire”.

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Marco Steiner
4 years ago

Un infinito e profondo grazie a chi ha scritto questo pezzo che mi lascia senza parole ma carico di un profondo senso di appagamento.
È meraviglioso scrivere quando si viene letti dentro, “oltre le parole”, appunto.

Marco Steiner
4 years ago

Certi libri nascono da un’urgenza interiore che scaturisce dall’incontro con un luogo, quel luogo si anima di voci nascoste che lasciano intravedere un fragile germoglio vitale. Ciascuna storia è stata per me una specie di opera di coltivazione emotiva per scoprire colori e profumi per troppo tempo celati dietro le povere righe dei vecchi registri. Ho provato ad arare delicatamente. Se qualcuno come Voi è riuscito nella stessa maniera a cogliere fra le mie righe e fra le immagini di questo libro delle storie-fiori, vuol dire che la lettura può essere vita e che nessuno meglio di voi si può definire “dietro le parole”…

vengodalmare
4 years ago

Te lo devo proprio dire: sei adorabile.

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