NATHANIEL HAWTHORNE – “La lettera scarlatta” – Rizzoli
E’ lo stesso Hawthorne a dare un consiglio ai suoi lettori: avvicinarsi al suo romanzo “nella limpida, bruna atmosfera crepuscolare in cui fu scritto: se lo aprite alla luce del sole, potrà parervi tale e quale un volume di pagine bianche”. Chissà, forse perché, come afferma alla fine del primo capitolo, “… questo è un racconto di umana debolezza e di umano dolore” e la debolezza e il dolore hanno sempre origini e spiegazioni complesse e, forse, vanno avvertiti emozionalmente più che compresi lucidamente. Resta il fatto che le pagine di questo libro (indipendentemente dall’ora del giorno in cui lo si legge) rimangono impresse nella mente del lettore, come la lettera scarlatta sul petto di Esther Pryme.
Probabilmente il romanzo nasce dalla volontà dell’autore di studiare l’azione purificatrice della colpa, quando viene confessata e quando se ne sanno affrontare le conseguenze con forza di carattere e dignità (Esther) e, al polo opposto, le conseguenze disastrose del peccato nascosto per viltà, che diventa cancro capace di minare e distruggere ogni sentimento elevato e, alla fine, persino la capacità di vivere (il Pastore Arthur Dimmesdale). Tutto ciò perfettamente in linea con la sua ambientazione: il mondo puritano ai primordi della colonizzazione della Nuova Inghilterra. Un romanzo moraleggiante quindi? Un “Faust puritano”, come è stato definito? Io credo che, dal punto di vista letterario il segreto del fascino e della vitalità di queste pagine sia però in altro. Hawthorne, si sa, è uno scrittore simbolico, un grande creatore di simboli oscuri, inquietanti e indimenticabili (si pensi al velo nero del pastore o alla simbolica vita/assenza di Wakefield), e “La lettera scarlatta” è un romanzo costruito intorno ad un simbolo. Quello che stupisce è che, a distanza di tempo, mentre si affievoliscono nella memoria le vicende di passione e morte che ne costituiscono la trama, rimane però viva in tutta la sua originalità e il suo mistero la lettera scarlatta. Perché ogni pagina del romanzo è da lei generata e a lei ritorna, è lei a costituirne il senso e l’unità. La mente è in grado di astrarre e di costruire simboli, ma ci vuole l’arte di un grande scrittore per trasformarli in creature di sogno e di bellezza