MICHELE MARI – “Filologia dell’anfibio. Diario Militare” – Laterza
Ho voluto correre il rischio della lettura di questo libro di Mari. Dal mio punto di vista un rischio, perchè temevo di restare delusa, e noi lettori sappiamo quanto fa male dover ammettere che uno dei nostri scrittori preferiti (tra gli italiani contemporanei, Mari lo è per me) deve essere ridimensionato ai nostri stessi occhi. Sarebbe stata una delusione che forse non gli avrei perdonato. Ho rischiato per la promessa insita in questo titolo canzonatorio e ammiccante (solo, mi pare volutamente, smorzato dall’asettico sottotitolo). Ho ritrovato invece in queste pagine quello che di Mari mi affascina: che si tratti di letteratura, di musica, di vita, ciò che lasciano i suoi libri è una straordinaria sensazione di completezza, o meglio, di aspirazione alla completezza.
C’è nelle sue pagine la certosina pazienza di chi vuole preservare il mondo (dall’oblio?), conservarne ogni più piccola implicazione, ogni suggestione, c’è il tentativo di ricrearlo, per possederlo. Che sia il mondo del tempo già vissuto, quello delle passioni spente, ancora vive, o che si presumono ormai destinate a durare per il resto della vita. Ho ritrovato il suo stile, così inusuale e riconoscibile rispetto a quello degli altri scrittori italiani contemporanei (mi riferisco ovviamente a quelli che conosco), non omologato, ricchissimo, e impudente persino, nei suoi compiaciuti arcaismi. Nel particolare contesto di questo romanzo, la scelta di utilizzare un linguaggio iper-colto e decisamente letterario crea un effetto di irresistibile comicità. Un’ironia sempre dolente ed affettuosa, quella che Mari riserva sempre anche a se stesso.
“Come analoghe classificazioni precedenti e seguenti, esse siano ricondotte solo alla mia vocazione (leggi: disperata esigenza) di inventariare analiticamente le cose della vita nella convinzione di potermene impossessare soltanto dopo averle “sapute”, cioè riflesse e mediate nella forma di un ordo enciclopedico-tolemaico che faccia tornare tutti i conti: tutti tutti.”
Ritenevo cosa certa, già nell’accingermi a sfogliare le prime pagine della riedita “Filologia”, di rinvenire colà almeno un preface diretto, per principio di precauzione, ai giovani lettori (in ispecie bambagioni, bamboccioni, mammoni, bardassi e recazzi) esenti ope legis dal servizio di leva; che li istruisse sul tracciato narrativo a prima vista demodé, onirico e kitsch; e li esortasse a leggere questo trattatello, la cui forma saggistico-narrativa non sarà mai sconveniente e bizzarra e anacronistica, perché, per quanto se ne dirà (“…E che ero una qui, e che ero una là”), il manufatto letterario reperito è di quelli da adoprarsi per conservarlo nella propria biblioteca mentale, visto che oggi non si confezionano più certe ‘croniche’, ogni esperienza personale di scrittura data alle stampe sembra una ficata creativa, ma già poche settimane dopo è diventata una stronzata, che la critica si affretta a definire “di non facile ed immediata comprensione” per farne salire la quotazione sul mercato. In un così rinnovato rapporto tra l’artista e il suo pubblico, anche il lettore qualunque, disorientato dalla varietà e dalla invadenza di un ‘gergo’ umanistico, serioso e snobistico che il Mari – aborrente da tutto quello che non trova attestato nei buoni autori – gli offre a profusione, avrebbe potuto inaspettatamente ritrovare proprio nella Filologia dell’anfibio, oltre allo spaghetto, il patrio risotto atto a ristorarlo de’ danni subiti dall’imperante manierismo linguistico, cosa mai accaduta nella nostra Sozialgeschichte der Literatur. Non mi sarei più di tanto meravigliato, quindi, se l’edizione laterziana fosse uscita con ridondanza di chiose a piè di pagina, curatissima come la ‘Cognizione’ commentata dal Manzotti, e destinata ad un fruitore-consumatore di diari e memorie con un grado di expertise maggiore di quello necessario per intelligere un romanzo della Tamaro. Ma è pur tuttavia giusto che il Professor Mari abbia riproposto il suo Diario militare come venne generato allora ‘in presa diretta’, restituendocelo con la sua “aura” e, soprattutto, senza porsi il problema dell’esistenza o meno di un modello intellettuale di lettore-utente preparato a superare la distanza temporale dell’evento estetico, dedito al repêchage letterario e pronto a sperimentare letture ‘inedite’. Partenza. E’ proprio dalla descrizione di questo episodio che ha inizio la personale ‘recherche’ dell’autore, svelando a chi legge la primordiale malinconia che si prova nell’atto di sorbire un ghiacciuolo-madeleine offerto dalla propria madre, in treno, al momento del commiato. Viene, invece, mantenuta inspiegabilmente celata al lettore la visione sinottica della progressione degli eventi della vita vissuta fino a quel momento dalla recluta Mari, che poteva essere ridotta, per quella speciale occasione, parimenti ad un breve ‘panta rei’ fino a Como. Da Arrivo (vor der Kaserne …) transitando per Contrappello, Cubo, Armadietto, non c’è bisogno di giungere a Iniezione per convincersi di avere effettivamente tra le mani il Bildungsroman che in Prima cena il Nostro preconizza quale genere letterario da praticare per poter proficuamente compiere la transcodificazione dei giovanili Verwirrungen che avrebbe sperimentato “in illo castro”. Se non che, pagina dopo pagina e attraverso un vasto affresco narrativo, un giovane ‘nipotino’ di Ugo Enrico Paoli si prodiga caparbiamente per eseguire una sorta di aristocratizzazione delle alienanti giornate vissute in prima persona in una iperrrealistica Urbs militaris. Impresa che, unita ad un ostentato atteggiamento fobantròpico di morselliana memoria, assurge a ragguardevole rivoluzione metodologica che dà agio all’autore stesso di erigere subito, senza licenza de’ superiori, un proprio hortus conclusus ove poter studiare unicamente gli eventi meritevoli di essere inscritti nelle Annales della sua personalissima naia. Fin quando, per addivenire alla comprensione spazio-temporale degli avvenimenti succedutisi in quell’annus mirabilis, lo scrittore opterà per una concezione ultra wittgensteiniana del mondo, realtà dei fatti “e” delle cose, tanto che in Quot sint genera ludo rum egli potrà legittimamente affermare: “questa è psicologia, antropologia, filologia, entomologia: di tutto fui scrutatore, tutto attentamente scrutai”. Impresa che porta a termine con animo ‘vagulo’, subendo contaminazione alcuna, poiché in Barbiere viene notificato al lettore chi sia il nume tutelare, la lux in umbra: “il pensiero della mia biblioteca, sempre mi funse da faro nelle acque impure della vita”. E in Libera uscita l’autore confessa inoltre al medesimo il compiacimento che gli procurava “recare in caserma pesanti tomi di varia umanità ed erudizione, conscio di corazzarmene contro lo sciabordio dell’ignoranza villana”. In Gerarchie, invece, è il suo “maniacale spirito elencatorio-classificatorio”, che rasenta quello di un aracnologo, ad uscire immacolato anche dopo aver sbudellato l’arìdulo e rigido Systema militiae, divulgandone l’insospettabile ‘quidditate’: l’esistenza della ridondante biodiversity che ivi pullula. E grazie a quel rigore cartesiano di cui il Prof. Mari è geneticamente dotato, non si hanno dubbi di riscontrare, in Quinta squadra, Altre conoscenze e in Nuovi compagni, una puntuale mappatura della ‘Masse ohne Macht’ che lo circonda, assistendo ad una autentica distillazione frazionata dei commilites che andranno a far parte dell’agiografia da consegnare ai posteri. Fenomeni questi ultimi, nei quali certa passione per il ‘particulare’ viene tuttavia mitigata dalla continua esibizione di un vasto literary heritage . Ciò conferisce all’autore viepiù la facoltà di devolvere formidabili risorse culturali per aprire una fumignivomente officina scrittoria, il cui linguismo si manifesta inaspettatamente attraverso citazioni di film (Quella sporca dozzina, La caduta degli dei), di personaggi della mitologia greca (Augia, Procuste) e della Divina Commedia (Farinata). A tratti esso viene perfino caricaturato, prestandosi sia alla deformazione grottesca: la Cella di rigore proposta al reader come una mostruosità lapidea di bosco bomarziano, in cui si aggirano vetuste icone letterarie (l’abate Faria et alii); sia alla stilizzazione espressionistica: lo Spaccio con il suo misero arsenale analcolico e lo scarso assortimento di pasticcini destinati a rari nates cum gurgite vasto. Esemplare, in Calcio, è la lettura in chiave behavioristica della genesi di una partita calcistica in cui il numero dei contendenti, partendo da un singolo fondatore palleggiatore, aumenta esponenzialmente come la crescita di una popolazione batterica: Quand’ecco che coraggiosamente il Mari schiaffa all’interno di questo inviolabile “Lebensraum” (in senso wackernageliano) un prodromico studio sociolinguistico sulle succulenti antonomasie coniate dai calciatori in divisa per appellare i compagni durante il concitato ludus. E’ il caso, infine, di cennare all’usus scribendi? Sì, ma solo per ripicca anticrociana: la forma è lo stile. Dunque, il testo è ricco di elementi lessicografici arcaizzanti (essempro, speglio, pondo), dialettali/regionali (Mantua, frugni), poetici (innanti), gaddiani (daddovero), latini e greci (cymba, fictorque patiensque, il superlativo relativo di “poneròs”), d’uso letterario (origliere, protreptica), e disseminati forse per sotteso desiderio di épater. Ma contiene per di più figure rettoriche bellissime, come quell’arguta iperbole usata per affermare che la letteratura pornografica circolante tra i ‘naioni’ si riprodurrebbe per partenogenesi – telìtoca o arrenòtoca? vien voglia di chiedere … Degno di nota, dulcis in fundo, in Infermeria, un bizzarro quanto aulico neologismo (“paleacaudato”), derivante da un calco linguistico generato attraverso un artefatto processo inverso di prestito, in cui le unità lessicali del modello indigeno (coda di paglia) sono state tradotte alla lettera e la risultante viene incastonata nella lingua ricevente come termine alloglotto. Buona lettura.