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letteratura inglese

Stevenson, “Il saccheggiatore di relitti”

ROBERT LOUIS STEVENSON – “Il saccheggiatore di relitti – Newton

“Su di una zona della carta della nostra vita si stende una rosea bruma impenetrabile; ed è tutto quello che ci rimane”

Robert Louis Stevenson inizia a scrivere questo romanzo nel 1889, due anni dopo la pubblicazione di uno dei suoi libri più belli, “Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde”, quando, già da un anno, la sua vita ha preso la svolta definitiva e felice che gli permetterà di scrivere in una lettera ad uno dei suoi amici più cari: “Questo clima, questi viaggi, e l’apparire delle terre all’aurora; le nuove isole che spuntano dai banchi di nebbie mattutine; e nuovi approdi boscosi, e nuovi allarmi di temporali e risacche; tutta la storia della mia vita è per me più bella di qualsiasi poema”. Anni felici, trascorsi in un viaggio senza ritorno fino alle Isole Marchesi, a Tahiti, alle Hawaii, fino alle Isole Gilbert e Samoa, e meraviglia che si tratti in fondo di soli sei anni (Stevenson morirà nel 1894), come meraviglia che questo prolifico scrittore, morto a 44 anni, abbia potuto conoscere e amare in un tempo così breve tanti cieli e tante terre, percorrere tanto mare, scandagliare il fondo dell’animo umano e, soprattutto, che abbia potuto inventare e raccontare tante storie straordinarie. Credo che questo romanzo vada letto con la consapevolezza che il tema del doppio caratterizza tutta la produzione di Stevenson (tanto più dopo “Lo strano caso del dottor J. e Mr. H.”), che in lui qualsiasi materia psicologica si tramuta in una trama romanzesca, o meglio, genera una storia, e che, infine, l’ambientazione del romanzo, almeno nella sua parte centrale – che dà all’autore la possibilità di muoversi su un terreno per lui fortemente allusivo (il viaggio in mare, l’isola deserta, la ricerca di un carico prezioso nascosto all’interno di un relitto abbandonato) – costituisce un elemento catalizzatore delle dinamiche psicologiche, in grado di alleggerirle e di controllarne la drammaticità. Sono i punti di riferimento che mi hanno permesso di apprezzare un romanzo che altrimenti, rispetto alle opere più note di Stevenson, potrebbe sembrare eccessivamente dispersivo, forse addirittura troppo ambizioso nel suo tentativo di far confluire in un’unica vicenda romanzesca i ricordi della giovinezza parigina dell’autore, l’ambiente dei faccendieri dediti alla speculazione a San Francisco, le vicende legate al brigantaggio mercantile e, infine, il fascino delle isole del Pacifico, paradiso naturalistico ma anche luogo di costante tentazione per una società moralmente libera e priva di controllo.

Come se non bastasse questa pluralità di temi, che corrispondono alle varie parti del romanzo, si va via via delineando, pagina dopo pagina, il tema del doppio, come al solito affascinante e ricco di implicazioni, costruito però questa volta da Stevenson addirittura mediante una duplice coppia di personaggi che, nello svolgersi della vicenda, incarnano il bene contrapposto al male, con esiti narrativi funzionali ad una storia così complessa e che alla fine ne risultano le travi portanti. Si avverte comunque, anche attraverso la densità forse troppo articolata di questo romanzo, la disposizione “felice” dell’autore durante la scrittura, forse perché Stevenson è sempre in grado di mantenere una sorta di equilibrio “tra il divertimento e la pena” (M. Mari), o forse perché nelle sue pagine è sempre avvertibile l’eco di quella esuberanza di sensazioni che il mare e le isole sanno comunicargli: “… spiagge accidentate, cime aguzze di monti, ombre profonde di foreste, e la marea inquieta sugli scogli, e la sconfinata pace delle lagune: sole, luna e stelle d’uno splendore sovrano; e tra questo paesaggio l’uomo ancora primitivo, e la donna più bella di Eva; il peccato originale deprecato, il letto pronto per l’ospite straniero, la vita una perpetua musica; il forestiero accolto con gioia, la barca pronta, e la lunga notte: un incanto tra poesia e canti in coro. Bisogna che un uomo sia un artista mancato: che abbia sofferto la fame per le vie di Parigi, che sia stato sotto il giogo di una forza commerciale perché possa comprendere la nostalgia che a tratti mi assaliva”.

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