ALEKSEJ APUCHTIN – “L’archivio della contessa D**” – Sellerio
Partiamo dalla struttura, perché questo breve romanzo epistolare, scritto da Apuchtin nel 1890, colpisce subito il lettore per la sua “arguzia” compositiva: è costituito da cinquantaquattro missive (soprattutto lettere, ma anche telegrammi e biglietti) provenienti da nove mittenti diversi che, nello spazio di circa un anno, si rivolgono tutti ad un’unica destinataria, la contessa Ekaterina Aleksandrovna D., la quale risponde regolarmente a tutti, senza che il lettore abbia la possibilità di leggere le sue parole, che può solo intuire dal tono delle missive successive. Sì, perché questo libretto non è propriamente un epistolario, ma l’archivio segreto della contessa, nel quale la nobildonna custodisce sotto chiave la sua corrispondenza per evitare che, e ben presto il lettore ne scoprirà il motivo, occhi estranei possano accedervi. Un arguto stratagemma che contribuisce a ridare vita e vivacità ad un genere letterario noto e consolidato alla fine dell’Ottocento e, nello stesso tempo, a predisporre il lettore ad avvicinarsi con uno sguardo divertito alla società che rappresenta.
Alla contessa D** scrivono alcune sue amiche gentildonne (una in particolare), il marito, la governante di una vecchia zia, un ecclesiastico e un paio di giovani adoratori con i quali intrattiene una relazione sentimentale. Apuchtin riesce a gestire abilmente l’alternarsi delle missive, in modo da illuminare alternativamente i diversi lati del carattere della contessa, perché ognuno dei mittenti la conosce sotto un aspetto particolare. Così, lettera dopo lettera, il lettore si costruisce un’immagine completa di questa nobildonna, sicuramente intelligente ed abile, capace di muoversi con abilità e astuzia nel suo mondo, una moglie irreprensibile che gode di un saldo prestigio sociale, che vive al centro di una ricca rete di rapporti ed è un punto di riferimento e un modello ideale per le persone che la conoscono e la ammirano. La contessa è un’esponente di spicco dell’alta società pietroburghese della seconda metà dell’Ottocento, che gravita intorno alla corte imperiale, una società che Apuchtin, nobile egli stesso, anche se decaduto, conosce bene e frequenta. Apuchtin osserva questa società, la rappresenta e la smaschera. L’archivio della contessa D** è infatti rivelatore di un cumulo di menzogne, ipocrisie e frivolezze, accuratamente nascosto sotto una patina di ripettabilità e di irreprensibilità. Leggendo le lettere che la contessa nasconde, veniamo così a sapere che ogni nobildonna, seppur sposata e con prole, intrattiene rapporti con svariati giovani amanti, che la sollecitudine della contessa per una vecchia zia è dovuta, connivente il marito, ad un mero calcolo di interesse economico, che le attività benefiche delle dame sono in realtà il modo per affermare il proprio potere sugli altri e che tutti, ben consapevoli della sporcizia morale in cui vivono e che nascondono, sono però pronti a condannare chi, per sfortuna o ingenuità, viene smascherato. Non esiste arma migliore dell’ironia per smascherare l’ipocrisia e Apuchtin, proprio mediante l’ironia, esercita la sua critica feroce nei confronti di una società basata sulla finzione. Il suo libro è una sorta di palcoscenico sul quale, di volta in volta, salgono i personaggi di una farsa e interagiscono con la protagonista, personaggio muto, ma illuminato dalle parole degli altri. L’autore, il regista della farsa, non compare mai sulla scena, ma sa abilmente dosare gli effetti comici prodotti dall’intersecarsi del piano della menzogna con quello della fulminante e improvvisa verità. Tutto questo fino all’ultima lettera, la numero cinquantaquattro, scritta da Mar’ja Ivanovna Bojarova, l’amica più vicina alla contessa, la sua più assidua corrispondente. In questa lettera, lo stile di Apuchtin cambia registro, abbandona quello della satira, si fa più alto, quasi drammatico, forse perché il dolore vero che esprime, per un sentimento d’amore, vero, crudelmente disilluso, crea una frattura, una crepa nel mondo falso e ipocrita dove tutto è un gioco e dove vince chi è più furbo, più freddo, più egoista e più insensibile. Forse perché non si può fingere che il dolore non esista. Ecco allora che su questo palcoscenico di parvenze, qualcuno, finalmente, parla usando parole vere, in un monologo così accorato che ci si dimentica di Mar’ja Ivanovna e quella che si sente è la voce di Apuchtin, dell’amico di Cajkovskij (i due, compagni di scuola, sono nati e morti nello stesso anno), dell’amico di famiglia di Turgenev, l’originale che faceva ridere l’alta società pietroburghese leggendo le sue rime, l’autore che tanti anni dopo verrà apprezzato, e non è un caso, da Bulgakov: “Reciterò qualche parte nella commedia del vostro mondo o rimarrò spettatrice indifferente di questo vano affaccendarsi, di questa lotta eterna di ogni immaginabile orgoglio e interesse?”