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letteratura tedesca

Johnson, “Schizzo di un infortunato”

UWE JOHNSON – “Schizzo di un infortunato” – SE

“Non è tempo per storie in prima persona”

Un avvicinamento. Riscontri, riconoscimenti e suggestioni. Questo libro rappresenta il mio personale avvicinamento all’opera di Uwe Johnson, o meglio, al pianeta Johnson, data l’importanza che la sua immensa tetralogia, “I giorni e gli anni”, riveste nella letteratura tedesca del secondo dopoguerra. Un avvicinamento ricco di riscontri e di suggestioni. La prima nasce dalla bellissima foto riportata in copertina, che ritrae l’autore seduto in completa solitudine sullo sfondo di una brughiera, in una posa e in un atteggiamento che, inevitabilmente, mi riportano al mondo di Arno Schmidt, alla sua faunesca solitudine, alla sua prosa frammentaria, poetica, fortemente innovativa, a quel suo modo, assolutamente personale, di obbligare il lettore a collaborare come parte attiva alla costruzione del suo mosaico narrativo. Una suggestione visiva quindi, confortata però anche dalla consapevolezza, per ora solo iniziale, ma che spero di poter approfondire con le mie future letture, che Arno Schmidt, Uwe Johnson e Walter Kempowski rappresentano tre delle voci più geniali della pur ricca produzione letteraria tedesca del secondo novecento.

Non a caso l’editore Lavieri, che ha il merito di aver pubblicato in Italia le opere di Schmidt, ha anche  pubblicato il romanzo di Kempowski, “Tadelloser & Wolff”; ed è nelle note alla Postfazione a questo romanzo, scritta da Raul Calzoni, che scopro il legame di amicizia esistente tra Johnson e Kempowski, l’ammirazione che quest’ultimo nutriva per l’autore della tetralogia e una considerazione del critico, che definisce la prosa dei due autori come “una narrazione interrogante, volta a smascherare la distorsione dell’oggettività dei fatti”. Trovo questa espressione illuminante perché definisce con chiarezza la prima impressione che ho riportato dalla lettura delle pagine di questo libro che, pur essendo breve, rimanda ad un tema e ad una realtà ben più ampi. E torna ancora la sensazione di muovermi nei pressi di Arno Schmidt, di essere di fronte ad un autore ugualmente esigente; dove Schmidt va componendo nel suo modo inconfondibile le tessere del suo mosaico, lasciando al lettore il compito, o meglio, la possibilità, di unirle, così Johnson disegna uno “schizzo”, che allude ad una realtà, senza nutrire l’illusione e la pretesa di completare il suo quadro, di collegare in modo esauriente per il lettore ogni elemento che lo compone, di fare chiarezza e, nemmeno, di aspirare alla chiarezza. Il contenuto del libro è fortemente autobiografico e rende conto di un “infortunio” che ha fortemente compromesso la vita dell’autore, distruggendo le certezze sulle quali si basava, un infortunio che ha minato irreparabilmente i suoi sentimenti più profondi. Johnson racconta la sua vicenda privata attraverso una scelta stilistica fortemente significativa: il protagonista della vicenda (alter ego dell’autore) elabora una serie di “rettifiche, riflessioni, informazioni e postille” ad una sorta di deposizione giudiziaria, che viene riferita in terza persona da un narratore esterno. Una narrazione, quindi, costituita da un lungo discorso indiretto, reso in tedesco, come ci informa la traduttrice Rossella Rizzo, usando il verbo al modo congiuntivo – Johnson definisce queste pagine: “le mie esercitazioni al congiuntivo” – intraducibile in italiano e quindi sostituito dall’indicativo. L’autore quindi compone uno schizzo, per sua natura incompleto, sceglie la terza persona per raccontare quello che il protagonista rettifica, alludendo a ciò che gli è capitato, costruisce un testo che, in lingua tedesca, è basato sull’uso del congiuntivo, il modo verbale dell’ipotesi. E in tutto ciò il lettore si deve districare, in questo territorio privo di certezze e di appigli, perché, come afferma Luigi Reitani nel suo scritto espicativo “La vita al congiuntivo”, riportato in postfazione: “La vita […] può essere solo una vita al congiuntivo, tesa a evitare la luce affermativa con cui l’apparente pienezza delle emozioni e dei sentimenti illumina la nostra esistenza e talvolta (spesso? sempre?) l’abbaglia fino alla più atroce disperazione”.

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