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letteratura austriaca

Ingeborg Bachmann, “Invocazione all’Orsa Maggiore”

INGEBORG BACHMANN – Invocazione all’Orsa Maggiore – SE

iinvocazioneorsa1Rileggo spesso le liriche della Bachmann e, tra quelle contenute nella raccolta “Invocazione all’Orsa Maggiore”, ancora più spesso i “Lieder auf der Flucht”, i “Canti lungo la fuga”. Principalmente per la consapevolezza che non esiste la possibilità di dichiarare finita, terminata, la lettura della poesia, quando è grande poesia, e poi, probabilmente, anche per convincermi che sia veramente esistita una simile voce poetica, una simile voce poetica femminile. Fuga, “Flucht”, è un termine che ricorre spesso nel lessico poetico della Bachmann; i suoi versi sottendono spesso un movimento, un allontanamento o, al massimo, delle soste precarie e momentanee, già consapevoli della propria transitorietà. Forse rileggo così spesso questi “Canti” perché, nel mio immaginario, sono quelli che meglio rappresentano il soggetto poetico che li ha generati, la sua anima così complessa e contraddittoria, ritrosa ma anche votata all’espressione di sé. Perché la Bachmann sembra costantemente negarsi, ma anche concedersi, sembra esistere di un’esistenza perentoria ed esigente, nelle brevi soste di una vita interiore da fuggitiva.

Luigi Reitani, traduttore e generosissimo curatore di questa edizione della raccolta, nella  sua postfazione, “Il canto sulla polvere”, riporta quanto Hans Werner Richter (iniziatore e anima del “Gruppo 47”) riferisce nelle sue memorie riguardo alla giovane poetessa – allora ventiseienne – da lui invitata nel maggio del 1952 a leggere le sue poesie in una riunione del gruppo. Quanto Werner Richter racconta – “ella pianse le sue poesie” con una voce sottilissima che si andava riducendo ad un sussurro, costringendo gli ascoltatori a farsi avanti verso di lei per coglierne le parole, perdendo infine addirittura conoscenza – delinea bene la figura di una personalità fragile e ipersensibile, che si identifica sino al pathos e al silenzio nella propria voce. Fragilità psicologica, irrequietezza e inquietudine che sono il terreno di coltura su cui cresce e si rafforza quel grande contrasto che contribuisce al fascino della poetessa austriaca. Perché la voce di queste liriche è molto lontana dai lamenti sussurrati del disagio, dell’incertezza, della ricerca affannosa. La voce della Bachmann è, al contrario, perentoria e battagliera, anche quando canta la sua solitudine, anche quando mostra le sue ferite. E nei “Canti lungo la fuga” lo fa spesso, perché le quindici liriche, a loro modo, raccontano l’amore e la sua “dura legge”, come recita la citazione petrarchesca da lei scelta come motto introduttivo. Dura legge che conviene osservare per tutto ciò che di antico e universale l’amore aggiunge alla terra sottraendolo al cielo. I “Canti” si dispiegano seguendo la scansione e il ritmo di un ciclo, che è insieme naturale ed emozionale. Inverno (“Freddo come non mai è penetrato./ Volanti commandos giunsero dal mare./ Con tutte le luci il golfo si arrese./ La città è caduta.”); freddo interiore e solitudine (“Ma io giaccio sola/ nel reticolo di neve piena di ferite.”); imperiosa volontà di rinascita (“Via la neve dalla città speziata!/ La brezza dei frutti attraversi le strade.”); resa incondizionata all’amore (“Entrammo in spazi incantati/ e illuminammo il buio/ con la punta delle dita.”); sosta dell’anima pacificata (“La felicità tesse una gomena d’argento/ su cui giaccio ormeggiata.”); rottura dell’incanto (“Tra fumo e caligine, agonizzante, la fiamma/ si spegne in se stessa.”); lacerazione e grido di dolore (“Vuoi bagliori, lanci coltelli,/ strappi le calde vene all’aria;”); abbandono (“Bocca che pronunciò il verdetto,/ mano, che mi giustiziò!”); sublimazione della disperazione nel canto e utopica fede nella sua sopravvivenza (“Solo tramontare intorno a noi di stelle. Riflesso e silenzio./ Ma il canto sulla polvere dopo,/ alto si leverà su di noi.”). E quando si giunge alla fine ci si rende conto di essere stati trascinati da un ritmo in cui si alternano immagini molto plastiche, fatte di terra, colori, rumori, paesaggi, vita insomma, con il canto di una voce lirica profonda, quasi persa in un viaggio tutto interiore. E’ l’arte del contrappunto tra la più astratta introspezione e una passionalità fatta di sangue e di carne, in cui la Bachmann è maestra; un contrappunto che è anche il segreto della musicalità di questi versi e della sensazione di movimento, di fuga appunto, che rimane impressa nella memoria di chi li legge. Ma c’è anche altro: c’è nei “Canti”, come in tutte le poesie di questa raccolta, un grandissimo rigore nei confronti del linguaggio poetico. In una intervista del 1961, contenuta nel suo libro “In cerca di frasi vere”, la Bachmann afferma: “So ancora poco di poesia, ma di quel poco che so fa parte il sospetto. Sospetta di te quanto basta, sospetta le parole, il linguaggio, questo me lo sono detta spesso, approfondisci questo sospetto – affinchè un giorno, forse, possa nascere qualcosa di nuovo – altrimenti è meglio che non nasca nulla”. Mi piace pensare che la bellezza smagliante dei “Canti” non nasca da un’illuminazione fortuita e gratuita, ma che sia l’esito del lavoro di una mente che continuamente sospetta di se stessa nell’estenuante e forse vano tentativo di trovare parole e frasi vere. Un lavoro che è, prima di tutto, distruzione, perché, usando sempre le parole della poetessa, “uno scrittore non può servirsi del linguaggio che è stato già trovato, cioè delle frasi, ma scrivendo, deve distruggerle”. Dal sospetto nei confronti degli automatismi che spesso guidano il rapporto tra il pensiero e la parola e dalla volontà di distruzione delle parole scontate che uccidono la poesia, da un lavoro impietoso e rigoroso di una mente prima di tutto filosofica, nascono versi che sorprendono e, alla prima lettura, lasciano perplessi – come tutto ciò che è nuovo e che non è riconducibile ad altro – ma che si rivelano poi e, proprio perché sono vera creazione, continuano ad esistere. E quindi, se è inverno, “La palma si spezza nella neve”, se sono sola, “i morti a me addossati/ tacciono in ogni lingua”, se sono senza speranza, “non potrò sottrarmi,/ anche se il pesce rizzasse a difesa le pinne”, se desidero il cambiamento, “Spargete uva passa,/ portate i fichi, i capperi!”, se l’amore finisce, “aspetta la mia morte e poi di nuovo ascoltami”, ecc… Entrata alla fine nel territorio che è suo e solo suo, la Bachmann si sente libera di utilizzare tutto ciò che la grande tradizione lirica, tedesca ma non solo, può metterle a disposizione, interpretandola e saccheggiandola, recuperando persino il tono della preghiera (il titolo della raccolta è proprio “Invocazione”), ben consapevole che l’unica trascendenza è quella della parola creatrice, e aggiungendo al tradizionale trionfo petrarchesco della morte e dell’amore, il trionfo del canto, che è, forse, solo il tentativo di dire l’indicibile.

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Antonio
11 years ago

Ho letto molti romanzi e saggi della Bachmann, ma non le sue poesie. Dovrò rimediare. Complimenti per la recensione. 🙂

Francesco Luigi Bovi
Francesco Luigi Bovi
11 years ago

Intimamente vissuto ed appassionato questo tuo contributo sull’interpretazione di una delle più belle liriche della Bachmann e, direi, anche encomiabile ai fini della divulgazione della sua opera poetica data l’anomala situazione, tipicamente italiana credo – l’egregio Sig. Antonio che mi ha preceduto ‘postando’ ne è un chiaro esempio, al quale naturalmente mi unisco pure io … nel rimediare! – situazione dicevo, già denunciata dal Reitani (1996): <>
Ora però, non è proprio il caso di aprire in questa sede una ‘querelle’ vana quanto inconcludente e rimango con il sospetto che nella diffusione di questa grande “voce poetica femminile” l’editoria nostrana abbia la sua colpa, avendo optato soprattutto per i romanzi e i racconti, quali forme letterarie di più immediata fruizione da parte del popolo dei lettori.
Sarebbe invece azione assai più elegante mettersi qui ad ammirare la tua peculiare sensibilità estetica, che entra di diritto nell’odierna esegesi rappresentata – secondo il Reitani – da una eterogeneità di metodi interpretativi e da una pluralità di approcci analitici. Sensibilità feminina non comune la tua, legata ad un modello di empatia riuscitissimo e che ti porta a vivere un’esperienza emotiva trasmissibile nell’immediato a chiunque voglia godersi il canto della poetessa di Klagenfurt.
Sembrerebbe, Anna, che tu sia corsa veramente a raccogliere quelle lacrime poetiche che la giovane e bella Inge “pianse” davanti ad Hans Werner Richter, tanta è la suggestione che mi hai provocato leggendo questa tua ‘interpretazione liederistica’ e per la cui esecuzione sei discesa nella profondità di quell’anima “fragile e ipersensibile” ma da cui emana una voce “perentoria e battagliera”.
Non hai tuttavia disdegnato il ricorso ad un ‘freddo’ studio della struttura formale dei versi, necessario d’altronde per illustrarne la ritmicità ciclica (“che è insieme naturale ed emozionale”) e la varietà di immagini semantiche che in te hanno evocato (“terra, colori, rumori, paesaggi”).
E così pure degne di nota sono le tue espressioni ‘poetologiche’ utilizzate per evidenziare nei “Canti” ora la loro musicalità (contrappunto, ritmo, movimento), ora il loro rigore linguistico generato da quella “mente prima di tutto filosofica” che ha operato, aggiungerei, in stretta sintonia con il pensiero di Wittgenstein sui limiti del linguaggio.

Francesco Luigi Bovi
Francesco Luigi Bovi
11 years ago

Scusami, Anna, mi sono accorto solo ora che manca la citazione del Reitani: “Ingeborg Bachmann è oggi nota al grande pubblico soprattutto per la sua opera narrativa e in particolare per il romanzo “Malina”… Rispetto alla convergenza di interessi verso la prosa, la produzione poetica dell’autrice sembra invece essere passata in secondo piano, sebbene non manchino anche in questo campo ricerche e interpretazioni pregevoli.” Ciao.