GEORGI GOSPODINOV – Fisica della malinconia – Voland
“Viviamo in un’epoca di perdita di senso e di una incerta paura. Una paura lenta”.
Così l’autore afferma in un’intervista, per dare, entro i limiti in cui è possibile farlo, una chiave interpretativa, non già del romanzo, ma della sua generale tonalità. Perché se il mondo non è più magico e tu sei abbandonato, che altro si può fare se non mescolare memoria e desiderio? (Parafrasando e collegando indebitamente due delle epigrafi scelte dall’autore, rispettivamente di Borges e di Eliot). Questo libro è un’esperienza di lettura difficilmente paragonabile ad altre, perché trascende i generi letterari, rifiuta ogni purezza strutturale, richiede nel lettore una predisposizione al “vagabondaggio” e lo trasforma in un flaneur che si aggira nei territori della malinconia.
Solo uno scrittore dell’est poteva inventarsi un titolo così profondamente poetico e insieme così precisamente programmatico, porsi l’obiettivo di penetrare l’essenza della malinconia , di indagarne origine e consistenza, di farne la chiave di lettura della propria vita, e poi della vita in ogni sua forma, di porla alla base del tempo e della memoria e di rovesciarla poi – con sovrabbondante generosità – tra le braccia del lettore che, inizialmente disorientato e perplesso, finisce per abituarsi ai ritmi cangianti e dilazionati della sua scrittura e si lascia contagiare dalla ineluttabilità dello smarrimento. Perché il labirinto – e questa è l’immagine che più si avvicina allo spazio strutturale del romanzo, all’avvicendarsi delle sue parti, ai mille sentieri che dal prologo conducono all’epilogo, attraverso biforcazioni e incroci, ripercorrendo spesso all’inverso spazi già attraversati – racchiude tutti i pericoli, ma anche tutte le opportunità che ben conosce chi teme o, al contrario, spera di perdersi. D’altra parte è lo stesso Gospodinov ad affermare: “Non sono in grado di proporre un racconto lineare, perché nessun labirinto e nessuna storia è lineare”. E ancora: “Alcuni libri devono essere equipaggiati del filo di Arianna. I corridoi si scatenano all’improvviso, si incrociano l’uno con l’altro”.
Come non aspettarsi, appena posto piede in questo spazio instabile, incerto, ma colmo di possibilità, l’incontro con il Minotauro? Parte da qui lo splendido viaggio nella natura umana che in fondo è questo romanzo, nella natura ma anche nella cultura che ha radicato dentro di noi i semi di mille storie generatrici di senso. Parte dall’immagine di questo triste Minotauro spaventato e malinconico, un Minotauro giovinetto, ridotto ad attrazione da fiera. Parte dall’empatia di un bambino capace di immedesimarsi con tutto e tutti a tal punto che la sua dote sconfina nella malattia e ne rivela i sintomi. “E’ tutta la vita che tento di far uscire il Minotauro da me stesso”, scriverà molto più avanti Gospodinov, non riferendosi certo a quel mostro crudele che il mito ha tramandato, ma alla vittima di un grande peccato, di una grande calunnia e di una straordinaria ingiustizia, all’innocente che non sa perché è rinchiuso, che ha paura del buio e che soffre, terribilmente, perché è stato abbandonato. “Quanti lettori di queste righe non si sono sentiti almeno una volta abbandonati? Quanti confesseranno che almeno una volta sono stati chiusi per punizione a chiave in una stanza, uno sgabuzzino o una cantina? E quanti avranno il coraggio di dire che non hanno mai chiuso a chiave nessuno?”. Un bambino che è cresciuto mangiando il pane della malinconia, dotato di una sofferta e magica capacità di empatia, che ben conosce una precoce e ancora innominata sensazione di abbandono: sono pagine autobiografiche, ma fanno parte di una autobiografia in qualche modo universale, che suggerisce riconoscimenti e allude a ciò che per chiunque può essere condivisibile. Da qui l’uso di quella incerta prima persona che frequentemente si trasforma in terza, per poi tornare alla prima. Perché il passato non esiste più e nessuno di noi è più quello che è stato (siamo stati abbandonati persino da noi stessi…).
Esiste una sindrome del Minotauro? Probabilmente nessun dottore l’ha mai diagnosticata, ma forse di questa malattia soffre chi è potentemente attratto dalle storie, “dall’improvvisa fessura”, dal “rimpianto incomprensibile”, dal “sogno per qualcosa persa o mai raggiunta” che compaiono all’improvviso in alcune storie e che ti trascinano “nelle gallerie oscure di ciò che viene taciuto”. Se in ogni racconto ci sono simili gallerie segrete e corridoi, se ogni racconto è simile a un labirinto, noi “siamo fatti di labirinti” e la malinconia è fertile generatrice di storie. Come cresce, come diventa adulto questo malinconico bambino empatico? Perdendo la sua dote e sostituendola con il surrogato del collezionismo. “Ho provato un’acuta necessità di ammucchiare, di ordinare in casse e quaderni, in elenchi e enumerazioni. Salvare cose e parole”. Più di un sentiero del labirinto che è questo libro assomiglia ad un magazzino che ubbidisce alle oscure leggi della vertigine della lista. Gospodinov ha l’anima del collezionista, convinto che tutto ciò che è fugace ed effimero meriti di essere conservato per preservarlo dall’imminente catastrofe della fine del mondo (ma ogni istante che passa decreta la fine di un mondo). Per timore di essere lui questa volta l’artefice dell’abbandono, lo scrittore costruisce un rifugio per tutto ciò che con il passare del tempo è destinato a sparire, dando così alla letteratura l’impossibile compito di essere donatrice di immortalità: “Che io scriva, scriva, scriva, che annoti e che conservi, che possa essere come l’arca di Noè, non io, ma questo libro. Solo il libro è eterno, solo le sue copertine verranno a galla tra le onde, solo gli esseri che stanno dentro, tra le pagine, dove c’è un brulichio di vita, saranno salvati. E quando vedranno una nuova terra faranno frutti e si moltiplicheranno”.
Possiamo quindi aggiungere il complesso di Noè alla sindrome del Minotauro, malattie dell’anima di Gospodinov, i cui germi contagiano chiunque si inoltri nel labirinto del suo libro. Privato dell’empatia, lo scrittore è diventato un mercante di storie, un uomo che compra passati, passati privati di persone concrete, raramente felici, più spesso colmi di smarrimenti, malinconie e improvvise liberazioni. Grazie a loro può muoversi lungo gallerie di tempi diversi, può possedere la loro infanzia, le loro donne, i loro affanni e ammucchiarli nei cassoni della sua arca. Subentra così la terza malattia, che si manifesta con l’ossessione di redigere di continuo elenchi, di pensare sotto forma di elenchi, di narrare attraverso elenchi. Una deviazione che ha qualcosa in comune sia con il complesso di Noè che con la sindrome del Minotauro: l’urgenza di trattenere, salvare, non abbandonare, non essere abbandonato, il tentativo di arginare l’inguaribile malinconia, che è anche il desiderio di ciò che non è accaduto.
Gospodinov si trasforma nel flaneur dell’autunno del mondo, viaggia e insegue un autunno attraverso tutta l’Europa, redige elenchi delle città che sembrano deserte alle tre del pomeriggio, annota tutto quello che vede e che si proietta “nella landa perduta della sua infanzia”. Asfalti liquefatti dal sole nei tardi pomeriggi, densi profumi di rose, cimiteri, tramonti come istantanee epifanie, soffitti e finestre di stanze d’albergo… Annota tutto e si ritrova davanti ai suoi taccuini “come un vecchissimo Adamo, che un tempo aveva distribuito i nomi e ora saluta con la mano dietro di loro, vede come le loro code vadano sparendo in lontananza”. E stranamente ogni stagione è sempre autunno e “The saddest place is the world”. Perché si può indagare la fisica elementare della malinconia, addirittura spiegarla scientificamente, ma non è una malattia dalla quale si può guarire. Così chi si sente disgustosamente solo, può dedicare un pensiero “All’Angelo degli inspiegabili rumori nella notte,/ che veglia su chi piange nel bagno,/ su quelli che si feriscono in cucina/ e su quelli che fumano in terrazzo alle tre di notte”.