ANTONIO MORESCO – Gli esordi – Oscar Mondadori
“Metodo (per arrivare agli “Esordi”)
- Conquistare un diverso rapporto con il tempo.
- Continuare a farsi assalire dal romanzo. Girare sempre con pezzi di carta nelle tasche.
- Tesserlo pensando ad altre cose, come in sogno.
- Non farsi prendere dall’ansia. Se hai paura di non avere tempo sufficiente, rallenta ancora di più. Meno ci pensi e più il lavoro progredisce. Meno ti immergi e più vedi nel profondo. Solo una mente riposata può portare grandi pesi, in leggerezza. Non fare caso ai damerini, ai fogli di giornale. Non farti bloccare. Per andare avanti bisogna rompere per forza, tradire i fratelli e i maestri.
- Le tue forze mentali sono scarse, ti prendono amnesie, tic e fissazioni. Ti è impossibile concentrarti, per questo devi lavorare su reticoli di appunti, riscrivendoli all’infinito e connettendoli. Devi avanzare cancellando. La tua testa è piena di fischi e di rumori, la gola è sempre serrata per l’angoscia. Eppure, quando hai imparato a lavorarci assieme, la decima parte del più labile dei cervelli è sufficiente alla più grande delle imprese.
- E se l’arte non ha più nessun futuro in questo mondo… ecco il momento ideale per dedicarsi a essa!
- Lavorare in silenzio, nel silenzio.”
Trovo questa sorta di promemoria sulla strada da seguire, sul metodo per arrivare a “Gli esordi” – come se da qualche parte il libro già esistesse e l’autore dovesse procedere “cancellando” ciò che di superfluo possa distoglierlo dalla meta – in un altro libro di Moresco, intitolato “Lettere a nessuno”. Il mio approccio non sistematico all’opera di questo autore straordinario mi ha abituato ai continui rimandi da un libro all’altro; avendo iniziato da “Canti del caos”, la parte intermedia della sua immensa trilogia, sapevo di dover risalire a “Gli esordi”, in un certo modo anticipati e preparati da “Lettere a nessuno”, così come mi aspetto da “La lucina” l’approccio a quella materia in elaborazione, che saranno “Gli increati”. Il caso ha voluto che la stessa lettura non sistematica e del tutto impreparata, “increata” direbbe il nostro, mi portasse gradualmente, dopo una prima immersione totalmente spiazzante ma anche entusiasmante, alla consapevolezza di trovarmi all’interno di un mondo strutturato, creato, dotato di un proprio ordine, una propria logica, un proprio linguaggio, ubbidiente alle proprie interne necessità. Un mondo epico insomma, o meglio, una nuova epica per un mondo come quello attuale che sembra non avvertirne alcun bisogno e non poterla né supportare né sopportare. Ma il lettore la riconosce, a istinto, come riconosce la fatica, il dolore, il probabile presentarsi e ripresentarsi dello scoraggiamento, delle domande sulla reale necessità di questo lavoro, della pena che una simile impresa deve essere costata e che, probabilmente, sta ancora costando. Perché Moresco scrive controcorrente, contro la moda, contro la convenienza, scrive come se partecipasse ad una battaglia persa in partenza, scrive da sovversivo per quei lettori convinti che la vera letteratura sia sovversiva, perché sovverte l’ordine costituito e ne crea uno tutto suo, a cui resta caparbiamente fedele.
A pagina 656 della presente edizione è riportato uno schizzo, disegnato dall’autore, raffigurante la piantina della villa e del parco di Ducale (il luogo in cui sono ambientati alcuni capitoli della prima parte del romanzo) per l’edizione tedesca de “Gli esordi” – il libro ha vinto nel 2006 in Germania il premio Lipsia come migliore opera straniera dell’anno tradotta in lingua tedesca, superando, per inciso, “Mosca sulla vodka” di Erofeev e “Poesie di Ricardo Reis” di Pessoa – come nelle più tradizionali saghe; uno schizzo simile si potrebbe disegnare per ognuno dei luoghi in cui le tre parti del romanzo sono ambientate. Perché Moresco è in grado di creare luoghi letterari. Non è una cosa da poco e, soprattutto, non è cosa che si possa dire di molti altri autori contemporanei, soprattutto italiani. Mi sento in dovere di avvisare il lettore che ancora non si sia addentrato ne “Gli esordi”, che ne uscirà prima di tutto con un immaginario arricchito di luoghi. “Luoghi e strade da disegnare su quella straordinaria carta geografica, su quell’atlante che solo nella letteratura acquista leggibilità”, per riprendere le parole che Ingeborg Bachmann utilizza nella sua quarta lezione di Francoforte, aggiungendo che, alla fine, i luoghi letterari sono gli unici “dove forse siamo stati davvero”, perché a nulla assoggettati o asserviti (non a caso il libro della Bachmann si intitola “Letteratura come utopia”). I luoghi letterari si riconoscono perché permangono nella memoria del lettore, come tutto ciò che, visto per la prima volta, viene riconosciuto come del tutto nuovo e del tutto necessario. I luoghi di Moresco non sono né realistici né fantastici, sono creati e continuamente ricreati dalla sua scrittura. Certo rispecchiano una geografia sicuramente legata alla sua biografia, perché nulla si costruisce sul nulla, ma sarebbe un gioco sterile e sostanzialmente non necessario cercare di risalire al nucleo originario di esperienze che li ha generati. Quello che conta è il lento, certosino lavoro di costruzione che si spalanca e dirama davanti al lettore, pagina dopo pagina. Il tempo è infinitamente necessario per impadronirsi di uno spazio, ma Moresco è un generosissimo creatore che non descrive – almeno non principalmente – i suoi spazi, ma che concede al lettore il tempo, tanto tempo, tante pagine, per percorrerli e conoscerli. Tempo e, ancora più importante, una serie quasi infinita di possibilità di trovare al loro interno riscontri, riconoscimenti, percorsi, di muoversi autonomamente anche, addirittura, in modo indipendente dalla volontà dello stesso autore fra tutto ciò che egli gli fornisce. Questo è ciò che più avvince il lettore, questa possibilità di conoscenza, di una pur piccola e inutile e assolutamente non utilizzabile conoscenza in più. I luoghi di Moresco non si leggono, nei luoghi di Moresco si abita, a lungo, per tutto il tempo che è necessario per abituarsi ad essi, e poi non si dimenticano più. E’ così per il seminario e per la villa di Ducale con il suo parco nella Prima parte, la “Scena del silenzio”, per i paesini di provincia sparsi sulle alture sopra il lago e per il palazzo della sede abbandonata nella Seconda parte, la “Scena della storia”, per la grande città e il mondo dell’editoria nella Terza parte, la “Scena della festa”.
In ognuno di questi luoghi il lettore è chiamato ad assistere alla realizzazione di un progetto potentemente visionario, perché sotto i suoi occhi accadono fatti ed avvenimenti, tutti raccontati in prima persona dal protagonista, lo strano, disarmato, commovente e perplesso eroe di questo ciclo epico. “Gli esordi” è un romanzo connotato da una forte valenza narrativa; Moresco racconta, scrive per raccontare, solo che non racconta una trama, racconta la percezione delle cose che ha il protagonista, attraverso la sua voce. E questa percezione è a tal punto fuori dagli schemi, scrupolosa nella sua attenzione, premurosa nello svolgere il suo compito, che è quello di annotare tutto, di tutto rendere conto, perché tutto prende vita attraverso i suoi occhi, una assurda e a volte tenera e a volte crudele vita, che incatena e avvince il lettore ben più dello svolgersi della stessa trama. Che, sia ben chiaro, esiste ed è fondamentalmente la storia di una vocazione personale che va faticosamente precisandosi attraverso tre adesioni a tre diversi mondi (i tre “sì” che concludono ognuna delle tre parti): la vocazione religiosa della “Scena del silenzio”, quella politica della “Scena della storia” e infine quella, diciamo così, letteraria, con la scelta dell’io narrante di dedicarsi alla scrittura (“portare a compimento questo destino che ci è toccato, questo sogno…”) della “Scena della festa”. Una trama che procede attraverso la contrapposizione delle tre parti, senza che sia tra di loro necessario un collegamento esplicitato. Anche in questo Moresco è riconoscibile: non si affanna a rispondere alle legittime domande del lettore, lascia che anche di questo si occupi il tempo, il tempo della lettura che regala inaspettati legami, particolari anche minimi che sono in realtà emissari mandati avanti dalla materia precedente. E anche questo avvince e lega ed entusiasma quell’inesausto cercatore di meraviglie che si nasconde nell’anima di ogni lettore. Moresco è un narratore estremamente prodigo, ma anche estremamente pudico; non esita a regalare a piene mani i suoi tesori se si tratta di creare le sue scene e di popolarle di tipi umani bizzarri e sopra le righe, di dar loro abitudini e stili di vita grotteschi se non apertamente comici, di narrare avvenimenti ordinari, deformati dal suo occhio stralunato, insieme sapiente e innocente, ma evita accuratamente di inoltrarsi nella psicologia dei suoi personaggi, nei loro conflitti e nelle loro emozioni, tanto meno in quelli dell’io narrante, cioè di se stesso. Emozioni e sentimenti esistono ma non vengono detti, non hanno bisogno della parola che li crei. Forse perché sono loro a creare le parole.
Gentilissima Anna, ho seguito con molto interesse il tuo progressivo avvicinamento alla degustazione della succosa scrittura di Antonio Moresco, in maniera così esemplare ed originale tanto da decidermi a leggere subito “Lettere a nessuno” (nell’edizione della Bollati Boringhieri, Torino 1997), la prima opera che mi è capitata tra le mani (anche il mio un approccio non sistematico) spulciando gli scaffali della solita libreria di fuori catalogo e di outsiders letterari.
L’impatto che ho avuto con la prosa ‘moresca’, zibaldonesca, confessionale, è stato liberatorio: un sola voce, quella dell’autore-protagonista, persona viva, in perenne e tenace ricerca della peculiarità del proprio vissuto epocale, attraverso la ricomposizione di una lunga carrellata di ricordi autobiografici. La testimonianza, dunque, in apparenza di uno sconfitto, che invece trasforma l’iter doloroso, da venerdì santo, a cui lo scrittore si sottopone per cercare di pubblicare la propria creatura letteraria, in un evento ‘insurrezionale’ che spazza via ogni falsa logica della macchina culturale. E vien fuori così tutta l’insospettabile insulsaggine di eccellenti direttori editoriali e di noti critici letterari, che la forma epistolare con cui è costruito il ‘racconto’ denuncia pubblicamente.
Credo che siamo di fronte a quella forma di letteratura già catalogata da Claudio Magris nel saggio “Gli elettroni impazziti: Elias Canetti e l’Auto da fé” (in “L’anello di Clarisse”): “Nel Novecento è appunto la letteratura laterale che dice la verità sul reale: non quella che si identifica col corso del mondo, prestandogli voce e parlando in sintonia con esso, ma quella che si sente estromessa ed emarginata dalla sua traiettoria.” D’altra parte, anche tu cara Anna – degna discepola del Magris – hai saputo riconoscere in Moresco questa stessa particolarità: “Perché Moresco scrive controcorrente, contro la moda, contro la convenienza, scrive come se partecipasse ad una battaglia persa in partenza, scrive da sovversivo per quei lettori convinti che la vera letteratura sia sovversiva, perché sovverte l’ordine costituito e ne crea uno tutto suo, a cui resta caparbiamente fedele”.
Mi permetto di segnalarti, tuttavia, un parere dissenziente …
https://iannozzigiuseppe.wordpress.com/2011/02/15/antonio-moresco-un-imperfetto-nessuno-malaeditoria-e-scrittura-ombelicale/
Salutissimi! Francesco
Grazie, Francesco, per l’attenta lettura che fai delle mie parole e per le tue considerazioni su un autore che, ormai è evidente, apprezzo molto e dal quale mi aspetto ancora grandi cose. Ti confesso che anch’io ho letto le sue “Lettere a nessuno”, inevitabile tappa in questo mio vaggio di avvicinamento all’universo moreschiano. Le considero un regalo che l’autore fa ai suoi lettori, una generosissima opportunità di far calare per un attimo il velo che nasconde l’intimità e la vita, rendendo ancora più seducente il velo letterario che nei suoi romanzi la trasforma in canto.