MARIO GIACOMELLI – La figura nera aspetta il bianco – contrasto
“Il nero e il bianco, quasi una scrittura leggibile, distruggono in parte il realismo che la fotografia potrebbe avere. Nelle mie immagini non c’è niente di astratto, ma solo l’essenziale”.
Il bianco abbaglia e il nero ferisce, sempre, in ognuna di queste bellissime foto. Perché Giacomelli è drammatico ed eccessivo, invadente e impietoso. Affronta di petto il suo soggetto, affonda nel suo soggetto, lo apre come se lo squartasse per giungere nei suoi anfratti e catturarne l’anima. La figura nera aspetta il bianco perché il bianco sommuove e sollecita; il bianco aspetta il nero per incarnarsi in una forma ed assaggiare la vita. In entrambi i casi l’effetto è drammatico, ma di una sorta di dramma malinconico, che non assomiglia ad un urlo, ma ad una canzone triste, conosciuta fin troppo bene. Forse perché gli artisti usano lo tristezza e il dolore per consolare il dolore degli altri.
Giacomelli è un artista estremo, a partire dai suoi paesaggi che sono denudati, spogliati, sporchi, strapazzati perché carichi di segni fino all’inverosimile, sgranati, colti in un piano che li pone esageratamente vicini all’occhio di chi li osserva, ammalianti nella loro capacità di attrarre come in una vertigine e di avvolgere con una ipnotica fermezza. I suoi paesaggi sono terra, ma sono terra che sembra carne perché la terra è l’origine, come la madre, e i segni impressi sulla terra sono rughe di un volto tante volte percorso e conosciuto intimamente, come intimamente conosce le zolle la mano del contadino che la tocca, si sporca di lei e la ama, perché l’amore è una cosa semplice. C’è qualcosa di primordiale e di fondante nella percezione di queste immagini, qualcosa di atavico, perché risvegliano e sollecitano memorie che sono forse un patrimonio genetico anche per chi ha perso purtroppo l’intimità con la terra. “Il paesaggio come corpo”, così Roberta Valtorta intitola il suo commento alle opere di Giacomelli che hanno come soggetto la sua terra marchigiana: “Da tempo mi trovo a immaginare che le nostre prime percezioni del paesaggio siano quelle che andiamo componendo durante la nostra originaria permanenza nel ventre materno: curve di colline, regolare procedere della pianura, creste di montagne, scorrere di fiumi, mare e cieli, sono già tutti presenti in quella iniziale esperienza di umori e di sangue”. Sarà per questo che le sue fotografie hanno un ritmo e un respiro che arrivano diretti addosso all’osservatore, lo investono e lo coinvolgono, sarà per questo che in esse anche l’infinitamente lontano appare come infinitamente vicino.
Se il paesaggio è un corpo, anche il corpo è un paesaggio e la condizione per poterlo percorrere al fine di scoprirne l’essenza è strappare il velo del pudore, e questo fa Giacomelli nei suoi ritratti: strappa i veli della correttezza formale, va a scovare i suoi soggetti dove è la naturalezza stessa della vita che li rende veri: nell’infanzia e nel fiorire della giovinezza e dell’amore che li rende così consoni e armonicamente affini alla terra e alla natura, nella malattia e nella vecchiaia che travalicano qualsiasi possibilità di camuffamento o di posa. Non c’è pathos, spettacolo o messinscena nei ritratti di Giacomelli, ma solo un confronto diretto, semplice e umano, nessun cedimento alla seduzione, perché la forza di questa fotografia è forza di sottrazione, è la forza della resa all’intensità del soggetto stesso, che va protetta dalla tentazione dell’effetto, è il coraggio di mostrare ciò che non si saprebbe o vorrebbe vedere: “La prima serie delle mie fotografie, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, ha come soggetto l’ospizio; per me era come fotografare la terra, questa carne stava morendo come muore la terra ed era pronta per tornare alla terra”.
Il bianco e il nero, gli strumenti della sua fotografia, sono gli strumenti della scrittura, e la fotografia di Giacomelli è scrittura, è poesia ed è racconto. C’è nelle sue opere un campo bianco con cui misurarsi, in cui collocare forme che sono capaci di emozionare, dove la ripetizione dei soggetti è come la ripetizione di una frase, aperta alla possibilità di infinite variazioni, che sono sempre e comunque variazioni sul tema del vivere e del soffrire. E’ questo forse il segreto della sua fascinazione: è una fotografia che non si esaurisce e non perde la sua potenza perché è, in fondo, un insieme di componimenti poetici e partecipa di quella rara capacità della parola poetica di mantenere aperto attraverso la bellezza formale un canale privilegiato per cogliere quel poco di luce che ci è concesso.