GOTTFRIED KELLER – Tutte le novelle – Adelphi
“Dopo cena, quando s’era fatto buio, scese all’approdo, noleggiò una barchetta e costeggiò la riva sin che giunse davanti a quei punti della spiaggia usati in parte dai carpentieri e in parte dagli scalpellini. Era una serata meravigliosa: un venticello tiepido increspava lievemente l’acqua, la luna piena ne illuminava le superfici lontane e faceva scintillare le brevi onde più vicine, mentre in cielo spiccavano nitide le costellazioni; le montagne coperte di neve si specchiavano come ombre pallide nel lago e si poteva piuttosto intuirle che vederle; spariva invece nell’ombra ogni sciocchezza industriosa, ogni inquieta meschinità architettonica, assorbita in grandi masse tranquille dalla luce lunare…”.
Leggere le novelle di Keller significa fare i conti con l’armonia, riconoscerla, vincere la resistenza iniziale che suscita – per sovrabbondanza di dolcezza, rettitudine, saggezza, quieta accettazione della sventura, laboriosa pazienza, umile fiducia in sé e negli altri – e lasciarsi condurre dalla sua onda calma, dalla prosa a lungo andare ipnotica che la sostiene, finché ci si accorge di essere penetrati in un mondo letterario tramontato ma non certo astruso, elaborato a partire da una architettura solidissima e capace di reggere infinite variazioni, un manufatto artigianale che lievita su se stesso assurgendo con apparente leggerezza all’evidenza dell’arte. Assuefarsi all’armonia richiede una resa e richiede tempo e costanza, e la disposizione da parte del lettore a lasciarsi coinvolgere dall’invenzione fantastica, dal gusto del grottesco, dall’acutezza nell’utilizzo del repertorio realistico e, soprattutto, dalla grazia, quella che solo nella fiaba trova la giusta atmosfera per declinarsi e risplendere in quell’altrove che prescinde da epoche o culture e che pesca nei territori dell’archetipo, sollecitando un inevitabile riconoscimento.
La presente edizione rende merito all’opera di Keller proprio per la sua completezza, per la generosa sovrabbondanza grazie alla quale, passando attraverso favole religiose, saghe, epigrammi e leggende, si rivela appieno quella che lo stesso autore definisce una “profana passione per il novellare”. E’ raro poter accedere ad un intero repertorio, soddisfa quel desiderio di completezza che inevitabilmente coglie il lettore quando incappa in un autore di cui intuisce la portata, come rappresentante del gusto letterario di un’intera epoca, e in questo caso di quel realismo poetico che ha permeato di sé la narrativa tedesca della seconda metà dell’Ottocento, ma anche come maestro amato, maestro di gusto, equilibrio e forza creativa, riconosciuto come genio ispiratore da autori più vicini alla nostra sensibilità moderna – più soggetti a quella inquietudine esistenziale che è a Keller del tutto estranea – come, per esempio, Hugo von Hofmannsthal. Perché è indubbio che nel novellare fluido ed inarrestabile dello scrittore svizzero salti all’occhio una energia in grado di dare forma ad ogni più piccolo particolare ambientale, ad ogni più apparentemente insipida svolta della vicenda, come se tutto, sgorgando dalla sua penna, assurgesse ad una straordinaria dignità non necessariamente legata al reale valore, simbolico, spirituale, o semplicemente didascalico, di cui è portatore. Non si avverte una diversa tensione narrativa – e non certo per incapacità o superficialità – nel passaggio dal registro comico a quello commovente, dall’insolente all’insulso al doloroso, e non si avverte proprio perché in tutte le novelle, pur nelle loro diverse tipologie, non viene mai meno quella sorta di vivacità che le rende corpose e colorate, più intrise di terra che di cielo, certo, disponibili ad accogliere la poesia, purchè essa sia almeno in parte, almeno minimamente, ancorata alla realtà. Che rappresenti il mondo piccolo borghese di villaggi o città svizzere, oppure il robusto e solido mondo contadino o ancora rievochi leggende patriottiche, l’attenzione e la grazia dello scrittore ricordano la mano paziente di un miniaturista, per sua natura portato all’amore per il particolare, disposto a soffermarsi su ciò che possa renderlo seppur per poco degno di attenzione.
Un disegnatore che trasferisce il ritmo, la consistenza, la fluidità del tratto, la composizione dell’insieme, dalla tavola al libero fluire delle parole, e bene ha fatto Elena Croce, l’attenta curatrice del volume, a sottolineare la formazione pittorica di Keller e a renderne conto anche mediante un apparato iconografico che illustra l’importanza del disegno nella fase ideativa dell’autore, dove schizzi e parole interagiscono assomigliandosi nella finezza del tratto, dove una calligrafia didascalica fa da controcanto ad immagini schizzate con una amorevole accuratezza. “Come un particolare di nubi, un profilo di montagne, un’incisione di un artista dimenticato spingono il pittore a riempire una cornice, così l’autore s’è sentito invogliato a ridar forma a quelle immagini frammentarie e fluttuanti…”, così lo stesso Keller, al fine di render conto del proprio livello di rielaborazione delle “Sette leggende” – una delle sezioni della raccolta – rispetto alla tradizione, rivela in realtà il modus operandi che guida la sua ispirazione. Resta il fatto che ogni singolo quadro, ogni singola novella, raffigura un mondo che appare ritratto a tutto tondo, interamente percepibile con chiarezza in ogni punto della sua superficie, dove la luce certo si alterna alle ombre, ma dove ogni ombra possiede la sua ragione d’essere, perfettamente plausibile, dotata di ciò che a lungo andare sarà in grado di dissolverla o, al contrario, percepibile fin da subito come destinata a perdurare.
La natura e il destino degli uomini si rivelano in queste pagine in tutta la loro infinita varietà, non esiste qui moto dell’animo che non venga esemplificato o scandagliato attraverso storie di varia umanità che assurgono ad esempio e, anche, da ammonimento; ciò che manca è l’incomprensibile, il desiderio che diventa ossessione, lo struggimento dell’anima, la desolazione, manca tutto ciò che non è né misurabile, né spiegabile. Manca la follia. L’irrazionalità, l’invenzione fantastica sono in Keller il colore della misura, strettamente dipendenti da una ispirazione che è sostanzialmente morale e civile. Si respira ovunque in queste pagine l’incrollabile fede nella conquista della verità, nella possibilità per l’uomo di intravvederla e di individuare chiaramente i passi che conducono alla realizzazione di sé. L’insuccesso, il dolore, il male hanno il loro posto in questo mondo ma subiscono un processo di sterilizzazione che pare renderli inoffensivi; previsti, controllati, dominati, non sembrano aver nulla a che fare con la disperazione, non suscitano commozione né tantomeno toccano l’anima.
Ecco: pare che la penna di Keller si aggiri nei pressi dell’anima senza mai penetrare realmente in essa, costruisca caratteri più che personaggi, frequenti ad ogni passo l’amore e la morte, così potenti, così veri, riuscendo in qualche modo ad uscirne indenne senza permettere loro di incrinare il proprio saldo mondo fatto di valori e di virtù umane e civili. Ma l’anima possiede mille modi per uscire alla luce e nemmeno la “grave dolcezza” che permea di sé il massimo livello di profondità psicologica di questi personaggi può comprenderla e trattenerla. E così si rivela – come afferma Sebald in “Soggiorno in una casa di campagna”, presentando Keller come uno dei suoi autori preferiti, da lui prediletto per la sua abitudine compulsiva alla scrittura – nelle osservazioni apparentemente casuali, nel dettaglio minuscolo, negli “oggetti crepuscolari usciti dal circuito del commercio”, forse involontariamente, nascosta nelle sublimi finezze della sua prosa.
Ciao.
Come al solito una bellissima recensione, di un libro che ho anche io in libreria ma che presumibilmente leggerò tra molto tempo, anche perché le sue oltre 1200 pagine (forse oggi tendono a fare libri così per costringerti a comprare gli odiati – da me – e-book) non ne fanno un oggetto agevole da maneggiare. Di Keller ho letto tempo fa “Enrico il verde” (Einaudi, con una meravigliosa prefazione nientemeno che di H. Marcuse) e ne ho ricavato l’impressione di un libro”postdatato”, più appartenente alla prima metà dell’800 che agli anni 70/80 nei quali già si affacciavano i vari “ismi” che anticipavano il ‘900. Con la tua recensione mi confermi questa impressione: è come se Keller scrivesse (forse perché vive nell’appartata Svizzera?) con qualche decennio di ritardo. Ma forse è anche questo uno dei motivi di fascino di questo autore, pittore come uno degli autori che almeno nel mio immaginario gli è più affine: il “dirimpettaio austriaco” Adalbert Stifter.
Anch’io leggendo ho spesso ripensato a Stifter: idillio, rinuncia e semplicità quotidiana, una spiccata preferenza per la cultura agreste e per la tradizione contadina contrapposte ai nuovi valori della nascente società borghese, un intimismo un po’ di maniera riscattato comunque dalla limpidezza dello stile. Keller è stato molto amato dai suoi contemporanei, come testimonia l’apparato relativo alla sua fortuna allegato alla presente edizione. Viene qui riportato il parere del suo contemporaneo Otto Ludwig, secondo cui è il temperamento svizzero di Keller a conferire ai suoi testi quella corposità che manca al romanticismo tedesco, che lui chiama verità poetica. Grazie per il tuo intervento. Un saluto.