ERMANNO CAVAZZONI – Storia naturale dei giganti – Guanda
“Passa febbraio, coi suoi gatti, e i suoi coriandoli lungo gli scoli. E io me ne sto qui scapolo, contro ogni legge impellente della natura, contro l’istinto, che dice che in febbraio ci si congiunge, con la prima che passa. Qui non passa nessuno”.
Non c’è alcun dubbio: i libri di Cavazzoni riservano al lettore il piacere di un intrattenimento scanzonato che trascina e avvince come farebbero le parole di un abile conversatore del tutto scevro da magniloquenza, amante dei ritmi lenti, nemico dell’effetto e felicemente riluttante al rigore canonico della disquisizione. La leggerezza coinvolge, contagia, libera e predispone al puro godimento intellettuale. A patto che la sua natura non derivi dall’inconsistenza o dalla banalità. Ma non è certo questo il caso, perché il divagare scanzonato di Cavazzoni ha una base colta, anzi coltissima, il suo oggetto – i giganti – è pescato direttamente dalla tradizione letteraria cavalleresca italiana, e non solo, del XV e XVI secolo, in poesia ed in prosa, comprensiva di origini ed epigoni, e la sua scrittura, diciamo così, affabulatoria, si dipana a partire da una accurata ricerca filologica, testimoniata anche dalle appendici al volume che riportano rispettivamente l’Indice dei giganti citati nel testo (e sono ben 132), e quello delle principali opere citate (65). E colta è anche l’intenzione, manifesta nel titolo, di compilare un trattato di storia naturale di questi esseri fantastici, ormai estinti nell’immaginario letterario. “Eppure sono stati una cosa gloriosa, a quanto dicono i poemi di cavalleria; una popolazione gloriosa di cui oggi poco si sa, purtroppo, dei loro usi, costumi, caratteri fisici, tendenze sessuali, sistemi riproduttivi, manie, sociologia; e poi decadenza e scomparsa; perché a questo mondo tutto finisce”, scrive l’autore nell’introduzione al libro che funge da “Dedica futura”, perseguendo poi il suo intento mediante una suddivisione del testo in paragrafi che richiamano seppur vagamente alla mente la trattazione scientifica tesa ad indagare intorno alla natura di animali pregiati in via di estinzione.
Che l’oggetto di tale indagine non sia una specie animale esistente, ma una categoria di esseri fantastici rappresentativa di una cospicua produzione letteraria che tanta fortuna ha avuto nella nostra tradizione culturale, è una delle strategie che permettono alla comicità dell’autore, disarmante e intelligente, di pescare da un repertorio pressoché inesauribile. Le fonti letterarie, scrupolosamente ripercorse e riproposte offrono all’autore il materiale del cosiddetto trattato; le sue considerazioni a margine, che si susseguono, inarrestabili e si direbbe difficilmente arginabili, alimentano la stessa vena comica portando il lettore in una dimensione straniante ma deliziosamente affine a quel mondo fantastico che è l’oggetto della “Storia naturale”, con le sue incantagioni, le sue stranezze, le sue malinconie, la sua fatale decadenza. “Forse questo libro è un po’ estremo; ma qui si viene al mondo e non si sa chi si è, da dove si viene”: un libro estremo nella sua intolleranza agli steccati del genere, perché difficilmente lo si può definire meramente comico, tantomeno lo si può considerare un saggio letterario scritto a mo’ di trattato scientifico.
Cavazzoni gioca con i generi, li travaliaca, ne fa un uso improprio, squisitamente personale, a tal punto che, senza soluzione di continuità, la sua scrittura, nel bel mezzo di una pagina dedicata agli usi, ai costumi, alle stranezze, o alle diverse nature e alle funzioni dei giganti all’interno dei poemi cavallereschi, diventa diaristica, diventa il diario dello scrittore che sta scrivendo il trattato, con tanto di date, orari, notazioni climatiche – le impagabili descrizioni della forma delle nuvole sulla collina delle antenne – storie familiari, episodi stralunati, ma, soprattutto, diventa il diario di una storia d’amore dilazionata nel tempo che occupa i sei mesi della scrittura, con tutta la trepidazione, l’esaltazione, l’illusione, l’incertezza, la malinconia che una storia d’amore, dall’inizio alla fine, porta con sé. Ma siccome la comicità è un boomerang, una volta lanciata ritorna sulla pagina e anche questa storia investe, donandole una luce particolare, intrisa di grazia disarmata, di ingenua goffaggine, di buffo candore: “Dopo quel pomeriggio, 17 febbraio, ho camminato guardando febbraio che si esauriva nel cielo, una baracchina sopravvissuta di zucchero filato, il suo odore di scarsi affari e di mandorle caramellate. E la molecola che questa Monica Guastavillani m’aveva messo nel nervo si era moltiplicata e sparsa per gli organi e per le ghiandole endocrine”.
Ma non si può negare a questo libro un altro pregio, quello di collocarsi all’interno di una folta e pregevole produzione letteraria che nel corso degli ultimi decenni del Novecento e nei primi del Duemila, ha felicemente portato alla riscoperta e alla celebrazione di quei poemi cavallereschi cinquecenteschi mediante i quali la letteratura italiana, allo svanire del mondo medioevale, l’ha trasfigurato, conservandone lo spirito nella proliferazione e decantazione dell’elemento fantastico, dando così spazio e respiro a quel tipo di narrazione che sfocerà più tardi nell’intreccio romanzesco. Cavazzoni scrive la “Storia naturale dei giganti” nel 2001 (“Era il 15 gennaio 2001, ore 22, quando ho iniziato a mettere giù in prima stesura i risultati”), la pubblica nel 2007, ma già nel 2000, a testimonianza del suo interesse da studioso oltre che da scrittore, aveva dato alle stampe, presso l’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, “Luigi Pulci e 14 cantari”, da lui scelti e introdotti. A riprova di come sia ancora fervidamente viva nell’immaginario di scrittori e lettori quella materia così feconda di intrecci e così malleabile, tanto da poter essere riscoperta e riproposta nella sua forma originaria, ma anche rivisitata e riutilizzata in un nuovo e sorprendente contesto che, presentandola nei suoi aspetti più facilmente deformabili dalla lente del grottesco, la illumina nel contempo della luce malinconica degli epigoni.
La lettura del libro di Cavazzoni può essere la porta che permette di inoltrarsi all’interno di una costellazione letteraria che gravita intorno ai poemi cavallereschi e se ne nutre in modo altamente produttivo. Alcune di queste opere sono riscritture in prosa nelle quali si cimentano scrittori italiani contemporanei, nell’intento di compiere un esercizio di ammirazione, di rivelare una personale passione, ma anche di tener viva la memoria di uno scorcio glorioso del nostro passato letterario. Così nel 1991, Gesualdo Bufalino scrive “Il Guerrin Meschino, frammento di un’opera di pupi”, nel 1994, Gianni Celati pubblica “L’Orlando Innamorato raccontato in prosa” e, nel 2016 esce, ad opera di Paolo Nori, “Paolo Nori riscrive il Morgante di Luigi Pulci”. E’ lo stesso Cavazzoni a citare nel presente volume uno dei testi critici che possono essere considerati fondamentali per la comprensione di tale contemporanea riscoperta: si tratta di “Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura”, di Gianni Celati (di cui Cavazzoni segnala in particolar modo il capitolo intitolato “Dai giganti buffoni alla coscienza infelice”). Il saggio indaga l’origine della forma romanzesca moderna e la genealogia della comicità, individuando nel superamento della sindrome razionalista (che l’autore chiama “delirio di consapevolezza”) una delle strade della produzione letteraria post-moderna.
Celati afferma di dovere a Calvino la nascita di questo volume, come d’altronde il suggerimento di riscrivere in prosa “L’Orlando Innamorato”, e proprio a Italo Calvino si deve l’inizio di una straordinaria stagione letteraria ma anche radiofonica che negli anni Settanta del Novecento pone sotto i riflettori di lettori e ascoltatori i poemi cavallereschi. Nel 1968 Calvino infatti presenta il testo dell’“Orlando Furioso” in una serie di trasmissioni radiofoniche, messe in onda dalla RAI, Programma nazionale, leggendone e commentandone i canti. Il testo, ampiamente rielaborato, di questo lavoro, viene pubblicato nel 1970 ed è ora fortunatamente reperibile nelle edizioni Oscar Mondadori, splendidamente illustrato da Grazia Nidasio. Non è un libro da perdere, è l’incontro tra due potenti affabulatori che, l’uno in versi, l’altro in prosa, trascinano il lettore in un castello di destini incrociati, arricchito dalle tavole di una delle più grandi illustratrici italiane; ed è un canto e un controcanto che a così tanti secoli di distanza si accordano miracolosamente, forse perché condividono qualcosa della stessa natura: “Il procedere svagato non è solo degl’inseguitori d’Angelica ma pure d’Ariosto: si direbbe che il poeta, cominciando la sua narrazione, non conosca ancora il piano dell’intreccio che in seguito lo guiderà con puntuale premeditazione, ma una cosa abbia già perfettamente chiara: questo slancio e insieme quest’agio nel raccontare, cioè quello che potremmo definire – con un termine pregno di significati – il movimento errante della poesia dell’Ariosto”. D’altronde Calvino ha sempre dichiarato che l’Ariosto è il suo poeta e gran parte della sua opera narrativa lo testimonia.
Nello stesso fortunato anno, Alfredo Giuliani, poeta dei “Novissimi”, critico e figura di punta del “Gruppo ‘63”, presenta ai radioascoltatori, leggendo, commentando e introducendo il testo, la “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso, realizzando una guida alla lettura mediante l’intreccio di strofe e racconto, per evidenziarne il movimento per consonanza o per contrasto. Ne nasce una chiave di lettura del testo inedita, suggestiva e modernissima dove la classicità si incontra con l’immaginazione contemporanea: “Quello che stiamo per leggere è il più malinconico dei poemi eroici, il più irrequieto e denso di penombre. La sua inquietudine è così assidua e profonda che offusca anche la dolcezza di cui volentieri si compiace, e allarma la stessa severità della fede cristiana a cui non cessa mai di obbedire. La sua malinconia è così irreparabile che facilmente trapassa dallo struggimento alla crudeltà. Le sue peripezie di guerra e d’amore non hanno la spensierata incongruenza delle avventure romanzesche, ma evocano un mondo sublime e patetico dove perfino il meraviglioso desterà, più che meraviglia, una sottile angoscia. Potremmo considerarlo, il nostro poema, come la storia di un sogno, ovvero come il sogno di una storia tutta interiore e simbolica”. Il testo viene pubblicato da Einaudi nel 1970.
Infine, al principio degli anni Settanta, la RAI commissiona a Giorgio Manganelli una lettura guidata e commentata del “Morgante” di Luigi Pulci, che permette ai radioascoltatori di incontrare le avventure di personaggi immortali come Orlando e Rinaldo, ma anche le vicende paradossali del gigante Morgante e del mezzo gigante Margutte che colorano la materia meravigliosa di una cruda impronta comica. Il programma viene realizzato in quindici trasmissioni, con la regia di Vittorio Sermonti. Lo stesso Manganelli non nasconde la sua affezione per il “Morgante Maggiore”, il primo in ordine di tempo dei grandi poemi cavallereschi: “E’ un testo estravagante, una formidabile presenza deformante in una serie di testi classici e colti. Gli è estranea la favolosità labirintica dell’“Orlando Innamorato”, come la nitida consapevolezza rinascimentale del “Furioso”, o la sapienza manieristica della “Gerusalemme”; ne potremmo riconoscere la qualità di fondo in una astuzia stilistica, nel gusto aspro e argutamente sgraziato della contaminazione di patetico, plebeo, favoloso e soprattutto di grottesco; un grottesco polidimensionale, esorbitante, intinto di un ilare ma non comico mostruoso. […] Situazioni, personaggi – Morgante, Margutte, Astarotte – sono archetipi che si collocano agli inizi di una possibile, ma poi frustrata, epica pantagruelica, un uso sregolato, malizioso e allucinato, ‘fiammingo’ della fantasia”. A causa di quest’ultima osservazione dell’autore, il testo delle trasmissioni viene pubblicato – postumo, nel 2006, per le Edizioni Socrates – con il titolo “Un’allucinazione fiamminga. Il Morgante Maggiore raccontato da Manganelli”.
La costellazione, per ora, si chiude, ma è in qualche modo confortante questo passaggio di consegne tra Luigi Pulci, Matteo Maria Boiardo, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, e Italo Calvino, Alfredo Giuliani, Giorgio Manganelli, e, ancora, Gesualdo Bufalino, Gianni Celati, Paolo Nori, Ermanno Cavazzoni, perché ciò che tutti questi autori nutrono e mantengono vivo è “una civiltà letteraria che non è fatta di letture, ma di riletture”, come lo stesso Manganelli scriveva un mese prima della morte.