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letteratura italiana

Michele Mari, Francesco Pernigo “Asterusher – Autobiografia per feticci”

MICHELE MARI, FRANCESCO PERNIGO – Asterusher – Autobiografia per feticci – Corraini Edizioni

Asterusher

“Perché questo noi siamo: la nostra scrittura e le nostre cose; questo il nostro lascito e, ben più esattamente che in una nota biografica, il nostro curriculum”.

Inizio col dire che, per struttura, forma, composizione, scelta di materiali e colori che lo fanno assimilare ad un piccolo catalogo d’arte, il libro soddisfa sia il senso estetico che la curiosità del lettore e appare, semplicemente al tocco o anche al primo frettoloso sguardo, particolarmente accattivante. Una simmetria piana e ordinatrice sembra deputata a contenere, senza disperderla e senza soffocarla o immiserirla, una materia iconografica e linguistica sovrabbondante che respira e agisce ben oltre il primo sguardo o la prima lettura. Si tratta di case, o meglio, di interni di case, delle due in cui la vita di Mari è trascorsa e trascorre, di case e di oggetti in essa contenuti – “Le case sono mie: mia la vita trascorsavi; miei gli oggetti e il senso che li investe” – quella di Nasca, la casa avita, di campagna, e quella di Milano. Ad esse sono dedicate le due sezioni del volume, i due repertori fotografici, identici nel numero di pagine, ventitré per ogni casa, e nella impaginazione (le fotografie – bellissime, di Francesco Pernigo – occupano gran parte della pagina e sono introdotte da didascalie che, per la loro natura, non tanto e non solo esplicativa, costituiscono la parte letteraria del volume).

C’è una sorta di rigore, di velleità ordinatrice in queste pagine, quasi fossero lacerti di una collezione, che non può essere qui completamente mostrata, ma che deve comunque essere rappresentata almeno nel suo spirito e nell’esigenza da cui è nata, mediante la scelta formale del catalogo, del repertorio, della lista. Tanto più è denso, sfuggente, stratificato, intimo ed emozionante il contenuto della collezione, tanto più ordinata e rigorosa sembra essere la struttura che lo racchiude e lo rende accessibile a sguardi profani. E si va allora alla ricerca di indizi, corrispondenze, ulteriori simmetrie, in una lettura che si attarda nell’esperienza visiva, ben sapendo che i testi condurranno necessariamente il lettore verso altre strade, alcune già percorse, sulle quali sarà d’obbligo ritornare, altre da ricercare, ma tutte da scoprire grazie ad una guida che non semplifica certo il cammino ma invita ad attardarsi e ad indugiare.

Lo dice l’autore stesso nella prefazione: “… si tratta di case-libro, case in cui sono stati letti libri e altri libri sono stati scritti, e case che a loro volta sono entrate nei libri come luoghi e come personaggi”; del tutto naturale allora trovare tracce, ma tracce ben disposte e allusivamente collocate di due autori tra i tanti ai quali Mari riserva continui omaggi, espliciti nei saggi, impliciti nelle sue scelte formali e manieristiche. Si tratta di due citazioni – le uniche presenti nel volume che non siano tratte da opere dell’autore – collocate strategicamente: la prima, tratta da “La casa di Asterione”, il racconto di Borges compreso nella raccolta “L’Aleph”, inaugura la sezione del libro dedicata alla casa di Nasca, la seconda, tratta da “Il crollo della casa Usher”, di Poe, conclude la sezione dedicata alla casa di Milano. L’una e l’altra delimitano quindi il territorio nel quale si inoltra il lettore, ne definiscono i confini formali, dando anche ragione del gioco linguistico da cui nasce il titolo del volume, “Asterusher”, gioco letterario certo, ma anche evocazione quasi magica di un essere fantastico, metamorfico e mitologico, generato da sovrapposizioni e fusioni, da solitudini e desideri, da fascinazioni e illusioni. “Entri chi vuole. Non troverà qui lussi donneschi né la splendida pompa dei palazzi, ma la quiete e la solitudine. E troverà una casa come non ce n’è altre sulla faccia della terra”, scrive Borges, scrive Mari, prima di aprire la porta della casa di Nasca; “A parte queste tracce di diffusa decadenza, la costruzione non dava segni di instabilità. Forse l’occhio di un minuto osservatore avrebbe potuto scoprire una fessura pressochè invisibile, che dipartendosi dal tetto dell’edificio percorreva la facciata a zig zag…”, scrive Poe, scrive Mari, chiudendo dietro ai visitatori uscenti la porta della casa di Milano. Incipit ed excipit letterari che delimitano case reali percepite letterariamente; l’una cristallizzata nel ricordo e vivente una sua vita segreta fatta di presenze e di oggetti animati dallo sguardo di chi sa, l’altra, attuale ed abitata, museo vivo e in fieri, mitologia in divenire, ma già segnata dalla tracce quasi inavvertibili del futuro abbandono, del lavorio del tempo sulle orme umane.

Intimità è letterarietà si fondono e interagiscono in queste pagine, arricchendosi vicendevolmente e dando vita a qualcosa che attiene ad entrambe e che è forse la cifra costitutiva della scrittura di Mari. Le fotografie – tutte di interni e di oggetti ripresi in primi o primissimi piani, bagnati da una luce morbida e radente (“Né sfugga […] la scelta profilattica di evitare quasi completamente gli esterni e le visioni d’assieme, secondo l’idea, o la poetica, per cui in assenza di riferimenti e di perimetri ogni lettore potrà ricostruirsi mentalmente la casa che vorrà”) – offrono la visione oggettiva di squarci di quel mondo intimo originario che è l’humus, riproposto, variato, trasfigurato in mille modi, di una ispirazione artistica fedele a se stessa che vi trova inesauribile materia. Le fotografie danno al lettore di Mari la visione reale di luoghi e oggetti mille volte immaginati e ripercorsi tra le righe, gli danno un accesso privilegiato a quella autobiografia intima che, pur non raccontando eventi, fatti, storie familiari, avvenimenti biografici, apre il suo cuore più profondo, quello che conserva i miti dell’infanzia, della crescita, della formazione, di quell’epoca remota ma impossibile da rinnegare, in cui agli oggetti inanimati, per consuetudine e affezione, si era in grado di attribuire un potere magico o spirituale, in cui insomma si era in grado di dare vita e anima alle cose, di creare, appunto, feticci, e di preservarli ad ogni costo dalla dissoluzione. Autobiografia per feticci. Mari ha il dono – che forse può essere anche una maledizione, perché il fardello è pesante e lo diviene sempre di più – di non poter abbandonare i suoi feticci, i lacerti del suo mondo magico, e di portarli sempre con sé, in una continua enumerazione e rivisitazione, e di accrescere il loro numero con sempre nuove entità, collezionandole con scrupolo, circondandosi di loro, controllandole e facendosi controllare.

Intimità e letterarietà: i testi che introducono le fotografie, sono, quasi tutti, costituiti da citazioni tratte dai romanzi e dai racconti dell’autore, didascalie divergenti, che più che commentare l’immagine, danno ragione della sua presenza nel momento della scrittura, offrono un pertugio attraverso il quale condividere in brevi istantanee – insolito e accattivante privilegio – il ricordo che va decantandosi nel gioco letterario. Cosicché ogni pagina di questo libro si avvale – e impreziosisce – del dialogo tra i feticci e la vita letteraria da loro generata, in uno scambio continuo e, si presume, ben più profondo e vasto di quanto il lettore possa cogliere. E’ infine tra le pagine dedicate alla casa di Milano che il lettore, procedendo, si accorge che questo dialogo non è destinato a finire, perché è evidente che il repertorio dei feticci di Mari è ben lontano dall’esaurirsi, possedendo l’autore la capacità di controllare, revisionare, mantenere in vita gli antichi e di crearne dei nuovi, dando senso e significato, trovando senso e significato, a tutto ciò che possieda qualcosa a cui l’anima si possa aggrappare: “una cosa in più, che si è aggiunta al mondo”.

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giacinta
7 years ago

Il soggetto è di quelli a cui non si resta indifferenti ( o almeno io lo considero particolarmente interessante ). Le case sono protagoniste in molti romanzi, anche di quelli il cui titolo non le menziona apertamente. Penso alla dimora di Peter Kien in Autodafè di Elias Canetti o a quella di Watt del romanzo di Beckett o a quella ….. ( ce ne sarebbero davvero tante da ricordare 🙂
Sono andata a cercare in rete le foto contenute nel libro e le ho trovate ipnotiche, bellissime. Grazie per questa segnalazione.