Traduzione, cura e postfazione di Luigi Reitani
“Nella parte antica del Campo Verano, tra sarcofaghi monumentali in ferro e statue di angeli segnate dalle intemperie e ricoperte di muschio che reggevano fiaccole funebri, in camicia a mezze maniche e con un mazzo di ginestre rosse, grasso e confuso, si aggirava Frocio, miagolando e mormorando incessantemente <Buona notte, anima mia!>.”
Luigi Reitani, curatore della collana “oltre” delle edizioni “Forum”, regala ai lettori con questo libro, da lui tradotto e definito “novella romana”, la prima versione italiana di un’opera di Josef Winkler, lo scrittore austriaco originario della Carinzia che continua la grande tradizione letteraria di questa terra – che ha dato i natali a Robert Musil, Christine Lavant, Ingeborg Bachmann e Peter Handke – scegliendola anche come motivo ispiratore di una trilogia per ora non disponibile nella nostra lingua. Reitani arricchisce il volume con una postfazione che è in realtà un breve saggio ricchissimo di informazioni, richiami e suggestioni letterarie, dal titolo “La morte a Roma”.
Quella di Winkler è un’incursione, anzi una vera e propria immersione, in un aspetto grottesco e deleterio di una certa romanità, così come appare ai suoi occhi di straniero e di scrittore – romanità scelta probabilmente come esempio concreto e calzante di una ben più vasta umanità – un suo aspetto letterariamente inedito che l’autore sceglie appositamente per amplificarlo, stravolgerlo e deformarlo, portarlo al grado più basso della sua mera carnalità per farlo poi assurgere ad una inedita ed imprevista purezza di spirito. Il romanzo è costituito da affollate pagine descrittive attraverso le quali si va dipanando e componendo un esile filo narrativo che a sua volta si può leggere come una sorta di elegia romana nata dal fango: più la prosa è cruda, infatti, e più sorprendente e delicata è la poesia che ne scaturisce. La scrittura di Winkler trae spunto ed ambientazione da un’attenta e profonda osservazione di merci, persone, atmosfere che animano il mercato romano di piazza Vittorio Emanuele, uno dei più suggestivi mercati storici della capitale, colto e quasi fotografato in una giornata d’estate del 1992.
La natura morta del titolo costituisce un filo conduttore che permette al lettore di comprendere sia la struttura dell’opera che la sua natura allegorica, e di orientarsi quindi, percependo il sottile trapasso tra il disgusto e la pietà, tra la volgarità e la dignità a cui queste pagine lo conducono. “Nella tradizione figurativa”, scrive Reitani, “una natura morta è un dipinto che ritrae fedelmente degli oggetti inanimati, in particolare un insieme di elementi del mondo vegetale e animale, talvolta frammisti a utensili o ad altri artefatti, disposti senza un ordine preciso, spesso sul piano di un tavolo: composizioni di fiori o di frutta intorno a cui si aggirano insetti; vivande, in parte già consumate, come pesci, pane o vino; singoli frutti sparsi accanto a libri o strumenti musicali”. E in effetti i sei capitoli che compongono il libro possono essere considerati come dei quadri statici che in una immaginaria galleria rappresentano la vita del mercato: come nelle nature morte i pittori indulgono spesso e volentieri a rappresentare animali squartati e frutta marcia, così la prosa di Winkler, nel suo virtuosistico esercizio descrittivo, insiste ad accumulare particolari ripugnanti, con una frequenza sospetta e certo indicativa di una sua funzionalità letteraria, quella che Reitani definisce “estetica del brutto”.
Non ci si può avvicinare, per esempio, senza provare disgusto al banco del macellaio: “Un macellaio [..] aprì in due la testa di una pecora già scuoiata e tranciata con la mannaia, tolse il cervello dal cranio e ne sistemò con cura le parti l’una accanto all’altra su una carta oleata rosa filigranata. Nella scintillante orbita destra del cranio, dai riflessi argentei – i due globi oculari si trovavano già su un cumulo di rifiuti di carne – volava una mosca dai bagliori violacei. [..] un garzone imbottiva con concentrazione il tronco di un coniglio eviscerato, rimettendo a casaccio cuore, polmoni, milza e reni, per disporlo poi nella vetrina dello stand, schizzata di gocce di sangue. Accanto a una chiave d’appartamento pendeva la testa scura e sanguinolenta di una capra con le corna nere e la mandibola perforata”. E così via, da un banco all’altro, si susseguono senza soste significative immagini ripugnanti di carni e pesci morti ed eviscerati, tra cumuli di rifiuti invasi da insetti, cartacce sporche e sangue che finisce per raccogliersi in pozzanghere colando da poveri corpi: natura morta, quello che resta dei corpi che un tempo sono stati vivi.
Ma Winkler è un seminatore di tracce che invitano il lettore a seguirlo, alcune delle quali sembrano rivolte forse volutamente a coloro che, per nazionalità, studi o passione personale, non possono non riconoscere l’autore delle epigrafi che introducono ogni capitolo. Sono versi di Ungaretti; i primi – “Ha un cesto di rugiada/ Il ciarlatano del cielo” – tratti da “Imbonimento”, tutti gli altri tratti dal ciclo “Giorno per giorno”, scritto dal poeta dopo la morte del figlioletto, a partire da quell’incipit straziante che dà voce ad un dolore insopportabile, gridato contro l’ingiustizia di una morte innocente: “Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto..” (versi che – come si apprende dallo scritto di Reitani – vengono citati dall’autore in tedesco nella traduzione di Ingeborg Bachmann). Il contrasto tanto forte tra una così alta poesia e una prosa formalmente elaborata e raffinata, ma utilizzata per ritrarre con insistenza immagini disgustose, insospettisce e crea aspettative che l’autore certo non delude.
Lo si capisce quando sulla scena del mercato e dei luoghi che lo delimitano, diventa sempre più evidente e direi ingombrante la presenza di una altrettanto orrida umanità, una “variopinta e multietnica umanità che brulica tra le bancarelle”: zingari, marocchini, arabi, neri, giovani drogati, ragazzette truccate come prostitute e oscenamente ammiccanti, vecchi omosessuali all’inseguimento di ragazzini disposti a vendersi per poco, una vera e propria corte dei miracoli che compra, vende, offre merci e prestazioni di ogni tipo, che fa sfoggio degli emblemi di una sessualità esplicita, anch’essa venduta al miglior offerente. Sullo sfondo della natura morta esposta che reca ancora le povere tracce della vita passata si fa largo una umanità ancora viva ma che esibisce sui volti, nei gesti e negli atteggiamenti, i segni di un’anima corrotta e morente.
Finchè ad un tratto la scrittura di Winkler, che come una telecamera riprende le varie scene, rallenta e infine si sofferma su una figura che ben presto si rivela come il genius loci del mercato, apparendo qua e là come una specie di folletto, interagendo con varie comparse o semplicemente soffermandosi pensoso e ozioso ad osservare l’animazione che lo circonda. E’ Piccoletto, “il figlio della donna che vendeva fichi”, il ragazzo che Reitani descrive come “fanciullo dalle fattezze perfette, novello Adone dei nostri tempi, metà martire e metà vittima sacrificale” e che l’autore identifica, ad ogni suo apparire, usando un epiteto che si ripete: “Piccoletto dalle lunghe ciglia che quasi gli sfioravano le guance”.
Anche questa una traccia, che suggerisce al lettore che altro lo aspetta, che il quotidiano così volgare ed infimo può trasformarsi – con una metamorfosi che solo la letteratura a volte è in grado di portare a compimento – addirittura in qualcosa di epico, tanto da potersi avvalere del linguaggio e delle situazioni ricorrenti nei racconti mitologici. Perché Piccoletto è amato e ammirato, suscita affetto e rispetto persino in quegli uomini del mercato che ricercano i favori dei ragazzi della sua età, forse perché inconsciamente persino loro avvertono, in mezzo ad una quotidianità così rozza, il valore della sua bellezza miracolosa, in grado di risvegliare quel che resta del loro spirito. In questa articolata allegoria che mostra con evidenza nella natura morta la caducità della vita, anche la bellezza così miracolosa e transitoria ha un destino già scritto, ma la morte di Piccoletto nella penna di Winkler assume i toni grandiosi dell’alta letteratura che mutua il suo valore dalla classicità, calata in un contesto così diverso che la rende ancora più significativa.
La tragedia è corale, così come è corale il compianto intorno al corpo del ragazzo morto che richiama il popolo variopinto del mercato, commosso e contrito, al suo cospetto. Scorrendo queste pagine grandiose si avverte la consapevolezza che proprio qui Winkler ci voleva condurre, in questa sorta di raffigurazione popolana della pietà, in cui Piccoletto è un Cristo, ritratto con le stesse sembianze dei corpi morti esposti sulle bancarelle, natura morta anch’esso, e a mo’ di madre pietosa lo tiene tra le braccia Frocio, – questo è il soprannome con cui tutti conoscono il grasso pescivendolo omosessuale – colui che ama il ragazzo con una purezza in lui insospettabile: “Con i capelli arruffati e appiccicosi di sangue la testa del ragazzo penzolava dal robusto avambraccio villoso di quell’uomo grasso, che ansimando e boccheggiando violentemente guardava fisso davanti a sè perdendo saliva”. Un’immagine che non appare blasfema, perché quello che suggerisce con la sua potenza è la necessità di condividere lo stesso sguardo pietoso e di comprendere un dolore che è tanto umano da riscattare tutto ciò che nelle pagine precedenti è apparso disgustoso.
La pietà è come una luce che attrae il popolo del mercato che converge in un unico punto; sono tutti esattamente ciò che erano prima, ma ora Winkler ci costringe a guardarli in modo diverso, e ciò che prima appariva disgustoso, grottesco e deforme, ora suscita compassione: i macellai “con i loro grembiuli macchiati di sangue e gli avambracci villosi”, la ragazza zingara “con i garofani artificiali nei capelli unti e bagnati, che con le fragili unghie laccate di rosso apriva i gusci crepitanti dei pistacchi”, Principe “che piangendo e tremante, con le scaglie di pesce dai bagliori argentei sul dorso della mano si inginocchiò per pulire il sangue dal petto del ragazzo”, la donna dagli occhiali cerchiati in oro e dalle lunghe unghie rosse “che vendeva frattaglie, stracarica di monili dorati, abbronzata dalle lampade”, l’esile e grigia donna incartapecorita che vendeva le rane “immerse nel secchio d’acqua l’anello a cui erano legate le cosce scuoiate, si grattò con le unghie nere da scimpanzè il volto disseminato di brufoli purulenti, e sussurrò con la bocca sdentata e a voce debole e rauca <O Dio! O Dio mio!>”, il barbuto cantante napoletano “dagli avambracci villosi, tatuati con dardi e serpenti, gettò la sua scatoletta oleosa di sardine, dalla quale aveva tracannato birra, sul mucchio dei rifiuti, per accorrere sul posto”, la vecchia e grassa mendicante “lasciò sul ciglio della strada la sua carrozzina malandata piena di rifiuti e ricoperta di teli di plastica insanguinati e si avvicinò all’assembramento, facendosi largo con le braccia sudice e robuste”, il pittore di strada “giunse in una preghiera davanti al viso le mani impolverate dai gessetti colorati e si morse l’indice destro”..
Una pietà, o un dissacrante presepio, ecco in che cosa si trasforma la natura morta di Winkler che scova la religiosità là dove non se ne sospetterebbe l’esistenza, e la racconta a suo modo, facendoci seguire le ultime tappe del viaggio di Piccoletto sulla terra, fino alla scena finale in cui Frocio, “novello Orfeo”, si aggira fra le tombe del Campo Verano con un mazzo di ginestre rosse in mano e una canzone storpiata tra le labbra, “parodia”, come afferma Reitani, “e al tempo stesso emblema profondo, dell’amore (e dell’arte) che cercano di sopravvivere alla caducità”.