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letteratura polacca

ANDRZEJ KUŚNIEWICZ, “Lezione di lingua morta”, Sellerio

Traduzione di Alberto Zoina

 

A Matków c’è un vasto palazzo, massiccio, basso, deserto; assi inchiodate alle finestre, saloni bui, nessun mobile o quasi, solo qualche sventrata anticaglia del secolo scorso, una credenza senza sportelli, delle poltrone senza cuscini, il vuoto; e dunque un lupo può insinuarsi tra i battenti socchiusi del portone o dalla porta delle cucine, o magari saltar dentro da una finestra bassa e annusare in giro come un cane randagio, per accucciarsi infine col muso nella coda soffice e addormentarsi, mentre fuori il gelo si accanisce spaccando i tronchi dei faggi e facendo gemere gli abeti, oppure s’alza una bufera di neve che nasconde ogni cosa e crea l’illusione che non ci siano più montagne, ma solo un’interminabile, bianca pianura di fiocchi turbinanti su cui vaga in diagonale una spaventosa luna piena, cui solo il gufo osa mostrarsi, battendo le ali lassù tra le tegole o sotto il cadente tetto di travi del palazzo di Matków.”

Si deve alla casa editrice Sellerio, all’inizio degli anni Ottanta, la pubblicazione in traduzione italiana di due bellissimi libri di Andrzej Kuśniewicz, autore nato in Galizia nel 1904, quando questa terra faceva ancora parte dell’Impero asburgico. Si tratta de “Il Re delle due Sicilie” e di “Lezione di lingua morta”, opere che meritano di essere maggiormente conosciute dai lettori italiani e che sarebbe un vero delitto se finissero per essere dimenticate. La prima è considerata, probabilmente a ragione, il vero capolavoro dell’autore polacco, per ampiezza, complessità e innovazione strutturale; la seconda, forse meno appariscente, costituisce però un piccolo gioiello, denso delle atmosfere crepuscolari e nostalgiche di quel mito absburgico che, come insegna Magris, ha dato vita a tanta grande letteratura. 

Anche Kuśniewicz, infatti, si muove all’interno della luce attutita e incerta del crepuscolo di un mondo che già intravede la sua fine. Una luce che illumina forse per l’ultima volta tutto ciò che l’ha reso grande. Cantare la decadenza, percorrerla e indugiare in essa sembra essere propizio per la nascita di opere letterarie che non nascono da uno sguardo diretto, bensì dalla memoria di ciò che il tempo e la storia hanno reso prezioso, per l’illusione dell’ordine e della sicurezza di una civiltà che appariva inalterabile. Un tempo prezioso perché irripetibile, come la giovinezza del protagonista di “Lezione di lingua morta” e del suo stesso autore.

In queste pagine, tali atmosfere risultano amplificate e rese caratteristiche dalla loro marginalità, sia cronologica – l’autore, che si è nutrito di cultura mitteleuropea, è comunque soggetto anche a nuove influenze letterarie – sia territoriale. Il romanzo è infatti ambientato durante gli ultimi mesi della Prima guerra mondiale in quella Galizia orientale che, ai margini dell’Impero ormai vacillante, ne avverte tutta la grandezza come l’eco di una voce lontana e morente.

Alberto Zoina, curatore e traduttore dei libri di Kuśniewicz, nella sua postfazione a “Il Re delle due Sicilie”, definisce il romanzo “la ballata di un’età che muore”, definizione che ben si adatta in fondo a tutta l’opera dell’autore. E’ sempre Zoina inoltre a chiarire che nello stile dello scrittore si avverte la lezione di tre importanti artisti polacchi che operarono tra le due guerre: la sua scrittura deve molto “all’intelligenza nera di Witold Gombrowicz, alla geniale eloquenza di Stanislaw Witkiewicz e al deliquio del tempo e delle cose di Bruno Schulz”. Da tutto ciò nasce un’alchimia che rende queste pagine non solo nostalgiche, ma anche enigmatiche e ambigue, costantemente oppresse dalla premonizione di un destino oscuro che sta per compiersi, ma che indugia e tarda, rendendo il tempo dell’attesa incerto e fragile, soggetto ad incubi e ad improvvise illuminazioni.

Tutto nel romanzo appare defilato, spostato verso la periferia, lontano dal centro delle cose e della vita. La marginalità dello spazio e del tempo isola gli eventi narrati, i paesaggi, i personaggi, persino le semplici comparse, gli stessi edifici, e li rappresenta in una sorta di icona, di cameo, di dipinto antico, un po’ anacronistico ma denso dell’anima di un passato non ancora dimenticato. Per lo svolgimento della sua trama, che ha a volte il sapore di un antico sortilegio, Kuśniewicz sceglie Turka, un villaggio tra i Carpazi, estremo lembo orientale dell’Impero, una “cittadina insignificante, e tuttavia a modo suo pittoresca, col suo odore di ossido di carbonio sprigionato ora dalla segheria ora dalla ferrovia, ma anche col suo profumo di resina e di abeti”. Qui il tenente Alfred Kiekeritz trascorre, alloggiato in un alberguccio ebraico vicino alla stazione – “infestato di pidocchi, coi suoi copriletti e coperte puzzolenti di polvere persica e di sudore rancido, di vecchia polvere e di muffa” – la tarda estate  e l’autunno che precedono la fine della guerra in “una specie di licenza di malattia [..] investito dell’improbabile comando d’una inesistente zona militare”.

In questo angolo di un mondo dimenticato, la guerra è solo un’eco lontana e l’unica realtà che il tenente non può ignorare è la sua malattia, lenta, ingannatrice, incurabile, nonostante brevi periodi di remissione che alimentano false speranze, ogni volta crudelmente smentite. La tubercolosi sembra essere l’unica compagnia nella vita dell’ufficiale, una presenza che non vuole essere dimenticata e che si manifesta in modo del tutto imprevedibile nel lento trascorrere dei giorni tutti uguali con “i colpi di tosse, i raschi soffocati, i gorgoglii, i vocalizzi da gallo, i sussulti e gli spasimi [..] come altrettanti veli funebri drappeggiati sulla bara”. La morte corteggia l’ufficiale, lo attende, ma lascia che si allenti ogni tanto il guinzaglio che lo tiene a lei legato, e queste soste si riempiono di pensieri, ricordi, passioni e nostalgie, si riempiono di una vita che si riprende i suoi spazi, soltanto più malinconica e più consapevole della propria fragilità.

Il senso della fine si respira in tutte le pagine del romanzo: finisce la guerra e con lei vacilla una cultura fatta di arte, usanze, costumi, oggetti, abitudini e valori che erano sembrati eterni. Anche il tempo di Alfred Kiekeritz volge alla fine in questo luogo così lontano dalla scintillante Vienna dei suoi ricordi, tra i giorni vuoti e le notti sempre più cupe, dense del profumo delle abetaie che cala dai monti, “il motivo ormai familiare che annuncia l’approssimarsi della notte e, con essa, dell’insonnia, delle allucinazioni febbrili che popolano quel buio quasi palpabile, bituminoso, nel quale i mobili addormentati si fanno sempre più pesanti, quasi volessero schiacciare colui che veglia”.

Questo lento tramonto di tutto ciò che era stato vivo, potente e inattaccabile, di tutto ciò che per il tenente era stata la giovinezza, è comunque disseminato dalle tracce del mondo di ieri. In questa terra periferica sopravvivono i fasti di un tempo morto che ancora non sa di esserlo, incarnati nel romanzo dal signor sovrintendente alle foreste Alois Szwanda “che tutti qui conoscono e rispettano da sempre. Un uomo robusto malgrado i sessant’anni, dai baffi brizzolati e ben curati e i capelli a spazzola, con la sua giacca stiriana dai bottoni d’osso e il berretto stiriano di Pichler, adorno d’una ciocca di peli di camoscio fissata ad una stella alpina d’argento”. Orgoglioso custode delle tradizioni imperiali, il sovrintendente introduce Alfred Kiekeritz ai misteri della caccia, considerata in quei luoghi un vero e proprio rito, permettendogli di accedere ai suoi tesori, la collezione di armi e i trofei venatori, frutto dell’arte degli impagliatori di animali destinata a scomparire con la morte dei maestri più esperti.

E’ proprio Swanda a favorire, pur non comprendendola, la sete di collezionismo che anima l’ufficiale e che lo spinge a cercare, nell’intento di preservarli e di metterli in salvo spedendoli a Vienna, oggetti artistici, vecchie icone, ceramiche, quadri, cimeli, tesori accumulati da generazioni intere, messi ora in pericolo dalla guerra: “Non è il nostro [..] una sorta di dovere umanitario [..], un gesto ispirato dalla volontà di salvare delle opere d’arte, e in generale una civiltà e una cultura superiori dal marasma, dal caos dilagante, dall’incendio, dalla violenza? Salvarle dalla devastazione seminata dalla feccia, che ogni cosa brucia, sfascia a colpi di bastone, sfonda con le assi divelte dalle palizzate”. 

Forse questo vezzo del protagonista del romanzo, che assume a volte l’aspetto di una ossessione vitale, non è altro che la trasposizione letteraria di un bisogno che l’autore stesso esprime nell’introduzione a “Il Re delle due Sicilie”, intitolata “Al lettore italiano”: .. essendo nato nel 1904 in Galizia, allora territorio della corona [..] ho acquisito per la vita un’inclinazione verso il genere di civiltà di quell’epoca. Oggi tutto ciò è un passato irreversibile. [..] ho voluto salvare dall’oblio questo tempo trascorso in alcuni dei miei romanzi. Vi è in essi l’angoscia che cresce di fronte all’approssimarsi di qualcosa di oscuro e minaccioso, di fronte a qualcosa che nostalgicamente finisce: ma in che modo? Una catastrofe? Un vasto punto interrogativo?”.

La minaccia oscura e imponderabile che nel romanzo parla la lingua morta a cui il titolo si riferisce, è affidata alla figura drammatica, avvolta in un’aura misteriosa e pericolosa, ma nel contempo affascinante, sfuggente nelle sue diverse sembianze di funambola, acrobata, contorsionista e medium, di Katarzyna Przedbojska, la stella del povero circo che un giorno compare a Turka: “.. aveva trentotto anni. Ma l’aspetto era indeciso, a seconda dei casi: una volta molto più giovane, una volta molto più vecchia. Se ad esempio la si osservava di lontano, magari sorridente, poteva apparire giovane, quasi una ragazzina; se invece si guardava di sera e da vicino la sua faccia stanca e incattivita, le labbra e gli occhi truccati di traverso, le guance imbellettate alla meglio, aggrondata, indolente, assonnata, allora, senza timore di esagerare, le si sarebbero dati più di cinquant’anni”.

Lo strano legame, fatto di repulsa e di attrazione insieme, che si instaura tra il tenente morente e questa sorta di zingara, un po’ giovane donna sensuale, un po’ vecchia veggente, appare ben presto come il cuore del romanzo, intorno al quale tutto ruota e tutto ritorna . Il tenente la teme ma non può liberarsi da lei e sfuggire alle sue parole, perché la donna è in grado di leggere nel suo destino e comprende cose che non è più possibile comunicare in modo intellegibile. E’ questo l’aspetto più accattivante della scrittura di Kuśniewicz, che la rende unica per il suo tono oracolare, capace di destreggiarsi tra un passato ormai morto ed un futuro quanto mai incerto. Così, mentre è chiara la profezia che la donna pronuncia sul futuro del tenente – “Poiché morirai giovane. Presto anzi, presto. Questo chiedevi? Questo volevi sapere? Questa la risposta che cercavi?” – confusa e incomprensibile è la litania che la medium borbotta in modo indistinto “come recitasse le parole di una preghiera, in una lingua ignota al tenente, in ebraico forse, pensò, o magari in aramaico, o in turco: [..] con ogni probabilità era una lingua inesistente, la lingua morta e artificiosa d’una cabala cui la donna era asservita, votata da sempre e per sempre”.

E se non è dato imparare la lezione di questa lingua morta, la straordinaria scrittura dell’autore polacco dona ai lettori la possibilità di cogliere almeno l’incanto di un tempo sempre più lontano in cui le sue parole avevano avuto un senso.

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giacinta
1 year ago

Splendida recensione! Grazie per la segnalazione:)

giacinta
1 year ago
Reply to  dietroleparole

allora mi attiverò subito, prima che scompaia…