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letteratura svizzera

LUDWIG HOHL, “La salita”, Sellerio

Traduzione di Umberto Gandini

Prefazione di Davide Longo

“.. di tanto in tanto si coglieva un profondo sospiro lontano, come dal mare, prolungato, come un grande mantice che si muovesse lentamente, respiri come d’uno che sospirasse nel sonno… non però d’un dormiente della pochezza di un animale o un uomo: quel dormiente era forse la montagna stessa. Poi tornava la quiete universale della notte sui monti, quella quiete imponente formata da un ininterrotto, melodico fragore, un fragore così lieve che non lo si percepisce più appena si leva un minimo rumore, ma che poi riemerge, misterioso e immutabile, come proveniente da lontanissime, gigantesche cisterne, introvabili per chi le cercasse.”

Ludwig Hohl, scrittore svizzero di lingua tedesca vissuto nel secolo scorso – in quel Novecento che non smette di riservare ai lettori capolavori nascosti, recuperati fortunosamente nelle pieghe delle proposte editoriali – ha dedicato la sua vita ad una scrittura rigorosa ed esigentissima, destinata a non essere popolare o immediatamente apprezzata, una scrittura schiva, che non si concede con immediatezza, a suo modo severa ed estremamente precisa. Tanto che potrebbe sembrare, al primo sguardo di un lettore distratto, eccessivamente chiusa e ripiegata su se stessa, se non possedesse anche una eleganza, un respiro, un sottile rumore che la rende in qualche modo affine a quella di autori come Max Frisch, Friedrich Dürrenmatt, Peter Handke e Adolf Muschg, non a caso suoi estimatori. Tanto che è proprio Dürrenmatt ad affermare: “Hohl è essenziale, noi siamo accidentali; noi mostriamo la realtà, lui la definisce”.

Nel caso del racconto lungo “La salita” – uno dei tre libri dell’autore reperibili in traduzione italiana, insieme a “Sentiero notturno” (una raccolta di racconti) e a “Note” (un corposo insieme di pensieri sparsi, citazioni ed aforismi) – risultano molto utili e significative le informazioni e le avvertenze riportate nella Prefazione da Davide Longo che predispongono il lettore ad affrontare queste pagine – poco più di un centinaio – senza incorrere nella tentazione di considerarle un semplice racconto di montagna o il resoconto di una ascensione, dando invece importanza agli indizi disseminati nel testo che alludono ad altro, ad un dramma, per esempio, ad una parabola, una fiaba filosofica, un’allegoria, ad un precipizio senza fondo, che non è certo solamente lo strapiombo che si apre tra le cime, ma bensì quello in cui conduce la parola, sfrondata e purificata da un lavoro certosino e dalla esigenza di verità: nelle ombre tra cui si perde il tentativo di comprendere il significato o la logica dell’esistenza.

“Le poche, dense, mirabolanti pagine che vi apprestate a leggere”, scrive Longo, “furono scritte da un Ludwig Hohl appena ventiduenne nel 1926, e da lui stesso riprese e rimaneggiate per tutta la vita, fino alla versione data alle stampe nel 1975, la prima. Quarantanove anni di riscritture e ripensamenti..”. Una caratteristica della composizione che si rivela pienamente all’occhio del lettore, quando si accorge, e questo fin dalle prime pagine, di doversi adeguare ad una scrittura che procede ad un ritmo lentissimo per soddisfare la volontà dell’autore di non disperdere nessuna delle potenzialità di una parola che guida, stupisce e apre orizzonti diversi, proprio come succede a chi si inerpica lungo un sentiero che conduce verso una vetta.

Per tutti questi anni, in gran parte trascorsi chiuso in una cantina a lavorare sulla scrittura, Hohl sceglie, cancella, sostituisce, asciuga parole ed espressioni, rielabora la sua trama narrativa e semina tracce. Seguirle è la vera avventura, la vera ascensione, la salita che in realtà diventa una discesa in profondità. Per questo forse, leggendo queste poche pagine, si ha la sensazione di procedere con grande lentezza, come se la natura stessa del testo imponesse al lettore il proprio passo. La ricercatezza del linguaggio rallenta il ritmo della narrazione, trasformandola nella lunga attesa di un compimento.

Ai venti capitoletti che compongono il testo l’autore assegna dei titoli brevissimi che evidenziano le sequenze narrative, la successione degli eventi, ma anche la stasi che li interrompono, come se dopo pochi passi fosse necessario fermarsi perché la salita viene ostacolata da qualcosa di inatteso – sogni, premonizioni, allucinazioni uditive – che rende il mondo reale, in cui i protagonisti agiscono e affrontano le difficoltà del percorso, più complesso ed enigmatico e la natura più affascinante e incomprensibile. 

Quella natura che è sicuramente predominante nell’economia del racconto, tanto che non può essere relegata al ruolo di semplice sfondo, poiché agisce e interagisce con i due personaggi determinando le loro azioni e decisioni.

Come scrive Longo, Hohl “pesca a piene mani dal repertorio romantico della narrazione di montagna e buttando sulla pagina, senza apparente imbarazzo, tutte le immagini enfatiche e un po’ patinate che ci aspetteremmo da un ventenne estasiato dai patrii monti”. Quiete meravigliosa e profonda, silenzio, tranquillità e nobile pace; la delicatezza, la levità e l’indicibile che una traccia di nebbia riesce a rendere reali, ma anche la maestosità delle cime che incutono rispetto e tengono avvinto lo sguardo di chi le vuole raggiungere ad ogni costo. Ma questo è solo il materiale su cui Hohl lavora, in cui inserisce un po’ alla volta la propria visione, trasformando un innocuo paesaggio da cartolina in una entità estranea e portentosa, qualcosa di animato con cui lottare. “Il monte è così, visto dal basso e da una certa distanza. Se ne coglie solo la ripidezza, il distaccato, incontrastato trionfo. La parte superiore del versante, fatta di vedrette e di roccia grigia, liscia e appena lucente, assomiglia a uno scudo, a una corazza, a un fine lavoro d’incisione su acciaio o argento. E l’intera, estesa immagine di quella nitida struttura sullo sfondo del cielo chiaro avrebbe forse anche potuto suscitare l’impressione di una nave molto grande che s’inoltri non tanto in un mare terrestre, quanto nell’eternità”.

Il paesaggio montano delle alte vette subisce nella penna dell’autore un processo di lenta metamorfosi, sia mediante l’utilizzo di similitudini apparentemente estranee al contesto della narrazione – “specchi paurosi”, “demoniache figure d’incubo”, “mura maestre a più piani di una fabbrica distrutta”, “forme come di corna di cervi o denti di vampiro, di leoni o di orsi rampanti”, “caricature d’un fornaio o d’un garzone di mugnaio col sacco in spalla, d’una donna a lutto, avvolta di panni da capo a piedi, di draghi e coccodrilli”, “rocce simili alle fauci d’un animale di grandezza inimmaginabile, i cui denti erano torri e pilastri, la gola un abisso oscuro, le stelle gli occhi” –  che sorprendono e a volte disturbano perché obbligano a prendere le distanze dall’immagine stereotipata, o se vogliamo letteraria, del paesaggio alpino, sia mediante la progressiva umanizzazione della montagna alla quale vengono attribuiti connotati spirituali: fascino, delicatezza, mestissimo abbandono, infinita malinconia.

Con questi presupposti l’impresa dei due scalatori – il buon camminatore e il cattivo camminatore – pur restando a tutti gli effetti il resoconto di una difficile e drammatica ascensione adatta ad alpinisti esperti – non viene certo raccontata solo per illustrare le tecniche dell’alpinismo e dell’arrampicata, che comunque vengono riportate con dovizia di particolari quando l’impresa assume i connotati di una lotta tra l’uomo e la montagna, ma offre lo spunto per visualizzare ciò che per l’autore sembra avere più importanza e cioè la vita interiore con le sue diverse connotazioni che si rivelano dapprima nei dialoghi tra i due compagni (“puntuti e scivolosi” li definisce Longo) e successivamente nella rinuncia alla scalata del cattivo camminatore, oppresso dalla malinconia, dalla depressione e da un oscuro terrore, e nella decisione del buon camminatore di continuare da solo l’impresa, accettandone il rischio contro tutto ciò che il buon senso e l’esperienza gli suggerirebbero.

Il destino farà cadere entrambi un una trappola e riserverà loro una fine che è una sorta di contrappasso dantesco: colui che per tutta la vita ha agito con decisione e rapidità, fidandosi di se stesso, dovrà affrontare consapevolmente una fine protratta per circa ventiquattr’ore, l’altro, per cui tutto nella vita era avvenuto con malinconica lentezza, a un passo dalla salvezza, probabilmente per la prima volta tranquillo e sicuro di sè, soccomberà improvvisamente e rapidamente per uno stupido incidente.

C’è forse molto altro tra le righe di questo breve e bellissimo racconto, molti luoghi in cui si può sostare per cercare di capire, molti indizi che si possono tralasciare o si può decidere di seguire anche se non sempre possono portare ad una spiegazione univoca. Di sicuro non può sfuggire una domanda che spesso viene posta al buon camminatore dai suoi conoscenti: “Ma voi, perchè salite sui monti?”. In un momento di dormiveglia, appeso alla parete senza più speranza di potersi salvare, in preda alle allucinazioni, l’uomo trova questa risposta: “per sfuggire alla prigione”. La salita allora è una fuga. Vivere è tentare di fuggire, oppure rinunciare. L’esito, sembra dirci Hohl, è comunque identico.

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