VARLAM ŠALAMOV – “I racconti di Kolyma” – 2 vol, Einaudi
“Ogni mio racconto è uno schiaffo allo stalinismo”, così nel 1971 Varlam Salamov definiva la sua opera principale. I racconti di Kolyma sono una tragica testimonianza sui gulag sovietici, su “quello che nessun uomo dovrebbe vedere né sapere”.
La Kolymaè una desolata regione di paludi e ghiacci all’estremo limite nord-orientale della Siberia. Qui l’estate dura poco più di un mese; il resto è inverno, caligine, gelo fino a sessanta sotto zero. Laggiù, dalla fine degli anni Venti del Novecento, alcuni milioni di persone vennero deportate per volontà di Stalin e sfruttate, in condizioni ambientali disumane, a fini produttivi: scavi nei giacimenti d’oro, costruzione di strade, disboscamenti e raccolta di legname. Salamov arrivò in quel “crematorio bianco” nel 1937 e vi rimase fino al 1953. Nel 1954, subito dopo il ritorno a Mosca, cominciò a scrivere questi racconti, ovvero a “vivere non per raccontare ma per ricordare”. La sua opera è un monumentale mosaico contro l’oblio, una sorta di poema dantesco sulla vita e sulla morte, sulla forza del male e del tempo. L’arrivo sull’”isola Kolyma”, la casistica dei vari tipi di carcerieri, i luoghi e le condizioni del lavoro forzato, la natura ostile e carica di significati simbolici sono le linee portanti di una creazione poetica che è anche analisi di uno spietato fenomeno antropologico: “con quale facilità l’uomo si dimentica di essere un uomo” e, se posto in condizioni estreme, rinuncia alla sottile pellicola della civiltà.
“Raccontate, maestro, la sensazione del rosso a chi non l’ha mai visto”. “Se lo toccassimo con la punta delle dita, avremmo una sensazione di qualcosa tra il ferro e il rame. Se lo prendessimo in mano, sentiremmo bruciare. Se lo afferrassimo, lo sentiremmo pieno come un pezzo di carne salata. Se lo prendessimo in bocca, la riempirebbe. Se lo annusassimo, avrebbe l’odore del cavallo. Se profumasse di fiori, sarebbe simile alla margherita, non alla rosa rossa”.
Il volume raccoglie i tre romanzi che hanno riscritto e codificato il genere noir francese e che rappresentano il vertice della narrativa del loro autore: “La vita è uno schifo”, “Il sole non è per noi” e “Nodo alle budella”. Il noir è un romanzo psicologico costruito intorno alla figura di una vittima; la scrittura del noir è sempre dal punto di vista della vittima, che si racconta o si fa raccontare nella propria discesa verso un punto di non ritorno. Si tratta di un genere ben distinto dal giallo e dal poliziesco, dove lo status quo viene frantumato da un evento imprevedibile di natura delittuosa e dove il compito della narrazione sarà di scoprire l’autore dell’infrazione e assicurarlo alla giustizia, ricomponendo così l’ordine iniziale. Nel giallo, che l’evento delittuoso sia un omicidio, un rapimento, un furto o una rapina, non ha importanza, così come non ne hanno l’identità e il modus operandi di colui che si incarica dell’indagine. Nel noir, invece, non c’è nessun ordine da ricomporre, non si torna mai al punto di partenza. Il romanzo poliziesco è un puzzle completo di tutte le proprie tessere: sarà sufficiente incastrarle le une nelle altre e il disegno apparirà in tutta la sua chiarezza. Nel noir il disegno è in continua evoluzione, ubbidisce a regole diverse, che possono cambiare da un momento all’altro. Per questo il noir non ammette lieto fine convenzionale. L’unico lieto fine possibile si ha quando la vittima, conscia della propria condizione, si ribella e, attraverso una serie di atti contro la legge, riesce a scamparla, a dettare le regole di un nuovo disegno, che avrà contorni, figure e colori del tutto differenti dalla situazione iniziale.
“Odessa è il sole. Odessa è una parola luminosa uscita dalle sue stesse viscere. Odessa è come una madre e alla madre soltanto appartiene l’eternità”
“Uscii. M’arrestai sotto alla torretta. L’acqua riluceva come scaglie di pesce, si riversava dal getto di prua e lontano lontano, al di là dei mari incantati, baluginavano i focherelli delle Lofoti. L’aria era ebbra e selvaggia, come pregna di alcool. Come si fa a sapere, pensavo, quando arriva quel giorno in cui all’improvviso si capisce che è troppo tardi, che la vita ti è sfuggita?”
Un barbiere si sveglia di buon’ora, si alza dal letto, spezza il pane appena sfornato, vi scorge dentro “qualcosa di biancheggiante”: un naso. Prende così avvio uno dei racconti più celebri della letteratura di tutti i tempi, affiancato in questa raccolta da altri quattro, non meno significativi e famosi: “Il ritratto”, dove un dipinto porta con sé, nel trascorrere degli anni, tutto il male che era nell’animo del personaggio rappresentato; “La Prospettiva”, storia di incontri e di passioni fatali o fugaci sullo sfondo mutevole, e talora inquietante del Nevskij Prospekt; “Il giornale di un pazzo”, diario di un uomo solo e del suo precipitare nella follia; “Il mantello”, dramma di un povero impiegato che subisce il furto del cappotto nuovo, acquistato costringendo una vita già misera a ulteriori, patetiche, restrizioni.
Miljenko Jergović è una delle voci più singolari della nuova letteratura europea: poeta, romanziere, drammaturgo, è nato a Sarajevo nel 1966 e qui ha compiuto i suoi studi, fino al precoce debutto poetico nel 1988. Poi viene la guerra, l’assedio di Sarajevo, la fuga dalla città, la scelta di Zagabria per vivere e lavorare, la nostalgia.
“Lascia che il vento corra/ coronato di spuma,/ che mi chiami e mi cerchi/ galoppando nell’ombra,/ mentre, sommerso/ sotto i tuoi grandi occhi,/ per questa notte sola/ riposerò, amor mio.”
Ciò che immediatamente colpisce il lettore di questo breve e intenso romanzo è l’originalissima tecnica narrativa con cui è costruito. Claus non racconta una storia, lascia che la vicenda si dipani attraverso le “voci” dei suoi personaggi, protagonisti e spettatori, tutti comunque sempre più coinvolti in prima persona. Corrono le voci e, tutte insieme, progressivamente ci aiutano ad entrare in una vicenda crudele e misteriosa. Sono le voci degli abitanti di Angelem, un villaggio nel cuore delle Fiandre; tra le sue strade, case, negozi, osterie e nel bosco che lo circonda avvengono i fatti inquietanti che accompagnano il ritorno a casa del protagonista del romanzo.
“Ecco la poesia che volevo scrivere/ prima, ma non l’ho scritta/ perché ti ho sentita muoverti./ Stavo ripensando/ a quella prima mattina a Zurigo./ Quando ci siamo svegliati prima dell’alba./ Per un attimo disorientati. Ma poi siamo/ usciti sul balcone che dominava/ il fiume e la città vecchia./ E siamo rimasti lì senza parlare./ Nudi. A osservare il cielo schiarirsi./ Così felici ed emozionati. Come se/ fossimo stati messi lì/ proprio in quel momento.”