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ROBERTO ARLT, “I sette pazzi”, Sur

Traduzione di Luigi Pellisari, Prefazione di Julio Cortàzar

“La sua vita si dissanguava. Tutto il suo dolore, non più compresso, si estendeva fino all’orizzonte intravisto attraverso i fili telegrafici e le aste di presa dei tram. All’improvviso ebbe la sensazione di camminare sulla sua stessa angoscia trasformatasi in tappeto. Come i cavalli che, sventrati da un toro, s’ingarbugliano nelle loro stesse budella, a ogni passo che dava i polmoni gli restavano senza sangue. Respirava lentamente e disperava di poter mai arrivare. E dove? Non lo sapeva.”

Augusto Remo Erdosain, “inventore fallito e delinquente a pochi passi dalla galera”, compare fin dalla prima pagina del romanzo e subito trascina il lettore per le strade della Buenos Aires di Arlt facendogli respirare la sua atmosfera da bassifondi, colma della vita sempre al limite, sporca e avvilente, faticosamente in equilibrio tra sordidi espedienti e inesausti sogni, della “fauna emarginata e cupa” (per usare le parole di Cortázar) che la popola e che, odiandola, è però a lei unita da un amore maledetto e tenace. È un universo a tinte fosche quello di Arlt, capace di suscitare moti di compassione ma anche di imprevista ilarità, perchè è buffo e sconsolato, a volte decisamente crudo ma non tanto da suscitare disgusto, perché è costruito sui fallimenti, sui sogni e sulle miserie, sulla battaglia ad armi impari di una povera umanità contro un destino che si preannuncia scontato, che non è difficile da comprendere e da compatire. Un universo che l’autore stesso ben descrive nella dedica alla moglie Carmen Antinucci della raccolta di racconti “Le belve” –  riportata nella versione italiana del 1980, edita da Savelli – in cui definisce la sua scrittura come “elaborata in vie oscure e paraggi taciturni, in contatto con gente terrena, triste e sonnolenta”, aggiungendo che “gli esseri umani sono più simili a mostri che sguazzano nelle tenebre che ai luminosi angeli delle storie antiche”.

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Jorge Baron Biza, “Il deserto”

JORGE BARON BIZA – Il deserto – La Nuova Frontiera

Jorge Baron Biza - Il deserto“Nei momenti che seguirono l’aggressione, Eligia era ancora rosea e simmetrica, ma di minuto in minuto le linee dei muscoli del viso cominciarono a incresparsi, un viso ancora molto liscio fino a quel giorno, nonostante i quarantasette anni e un intervento giovanile di chirurgia estetica cui doveva il nasino corto e all’insù. Quella spuntatina volontaria che per trent’anni aveva conferito alla sua testardaggine un’aria di audacia impostata divenne il simbolo della resistenza alle grandi trasformazioni che l’acido stava operando. Le labbra, le rughe attorno agli occhi e il profilo delle guance si andavano trasformando con un andamento antifunzionale: alla comparsa di una curva in un punto che non aveva mai avuto curve corrispondeva la scomparsa di una linea che fino a quel momento aveva costituito un tratto inconfondibile della sua identità”.

Quanto deve la letteratura alle madri? Ci sono libri in cui la vita e la letteratura si toccano e coincidono, donandosi a vicenda quello spessore tangibile, quella completezza liberante che l’una e l’altra inseguono, rispecchiandosi, deridendosi, giocando con la finzione, esaltandosi nel dramma, crogiolandosi nella esagerazione. Ci sono libri che sembrano il duplice frutto di un ventre materno, che ha prima dato la luce ai loro autori e che poi, morendo, li ha posti in grado di compiere a loro volta un atto creatore, costringendoli quasi a ripercorrere una morte – atto estremo di una vita – rendendola seme germinatore di una vita seconda e ben più potente perché salvata dalla contingenza. E’ così forse che le madri diventano l’origine di un certo tipo di letteratura, intensa e trasognata, profondamente umana ma straordinariamente lontana da ogni stereotipo, allergica ad ogni possibile riconoscimento, scevra da ogni intento sentimentale, addirittura cruda e disturbante nella sua testarda ricerca di una plausibile verità e, soprattutto, baciata dalla forza di uno stile ogni volta inconfondibile, come lo sono i lineamenti di ogni nuova creatura. Una letteratura che è ben lontana dal memoriale anche se alla memoria si appella, che da una frattura si origina, da un trauma che spacca con la sua forza bruta la logica dell’esistenza ma che si fa solco aperto dove germina una scintillante ispirazione.

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Antonio Di Benedetto, “L’uomo del silenzio”

ANTONIO DI BENEDETTO – L’uomo del silenzio – BUR

l'uomo del silenzio“Lo sai, l’hai pensato? … La notte fu silenzio. Il silenzio precedette la Creazione. Silenzio era l’increato e noi, i creati, veniamo dal silenzio. Nel ventre materno, avevano accesso i suoni? Non si erano sviluppati ancora i miei organi uditivi, giacché dei suoni non ho traccia né memoria? Dal silenzio veniamo e alla polvere del silenzio torneremo. Qualcuno implora: – Che io possa ritrovare la pace delle antiche notti… – E gli si concede un silenzio vasto, serenissimo, senza confini. (Il prezzo è la vita). Le nostre notti, Nina, mancano di compassione e anima”.

Compassione e anima: questo va cercando l’uomo del silenzio, questo uomo qualunque che, in virtù di una ossessione – ma quanto la Letteratura deve agli ossessionati, quanto è lei stessa una ossessione, quanto di ossessioni si nutre? – vive costantemente lacerato e dunque impossibilitato a dimenticarsi, a lasciarsi fluire, come tutto, come tutti. Un uomo fatto di venticinque anni, che nelle prime pagine del romanzo appare al massimo come un originale, un po’ vacuo e anche un po’ ridicolo, vittima tutt’al più di una fissazione che riempie una personalità non proprio matura ed equilibrata, diventa nelle mani di questo straordinario scrittore argentino l’eroe di una avventura metafisica, alla vana ricerca della vera libertà interiore. Un uomo che non vive bene, si direbbe, perché qualcosa gli impedisce di fare ciò che si è prefissato, un impedimento fastidioso e irritante che gli toglie la pace, ma talmente assillante che sembra addirittura cercato ed evocato, a dispetto di una pace che egli forse inconsciamente vuole tenere ben lontana.

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Roberto Arlt, “Le belve”

ROBERTO ARLT – Le belve – Savelli Editori

“Non potrò mai spiegarti come sono andato precipitando giorno dopo giorno tra gli uomini perduti, ladri e assassini e donne con la pelle del viso più ruvida della calce crepata. A volte, quando considero gli abissi a cui sono arrivato, sento nel mio cervello agitarsi grandi teli di ombra, cammino come sonnambulo e il processo della mia decomposizione mi sembra incastonato nell’architettura di un sogno mai avvenuto”.

Inizio da questi racconti – e in particolare dagli splendidi “Ester Primavera” e “Le belve” – il mio avvicinamento all’opera di Roberto Arlt, al “calore tragico” della sua opera, per riprendere un’espressione di Goffredo Fofi, citata da Grazia Cherchi in un articolo apparso su “L’Unità” nel dicembre 1993 (contenuto in “Scompartimento per lettori e taciturni”). Inizio sulla scorta delle suggestioni e delle sollecitazioni a cui una ormai assestata e convinta predilezione per la letteratura onettiana quasi mi obbligano. Inizio, sostanzialmente, per un bisogno di condivisione, per il tentativo – e non può essere che solo questo – di risalire a quelle radici letterarie, a quelle atmosfere, a quei ritmi narrativi, a quell’aura, impasto di colori, movimenti e sospensioni, che Onetti deve aver respirato e dai quali la sua penna deve essersi ispirata. E, come sempre avviene durante queste ricerche, quello che alla fine si trova, più che spiegare, apre nuove prospettive. In questo caso, su quella letteratura argentina del Novecento che sempre più mi appare affine e imparentata alla letteratura europea del secolo scorso, radicata in profondità nello stesso ricchissimo humus di cui quest’ultima si nutre.

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Bioy Casares, “Diario della Guerra al Maiale”

ADOLFO BIOY CASARES – “Diario della Guerra al Maiale” – Cavallo di Ferro

“Vidal pensò che nella vita arriva sicuramente un momento in cui una persona, qualunque cosa faccia, annoia soltanto. Resta allora solo un modo per recuperare il prestigio: morire”.

E’ un grande personaggio, don Isodoro Vidal, che a tratti mi ha ricordato i protagonisti di alcuni romanzi di Saramago. In questa folle e crudele guerra che i giovani conducono contro i vecchi, i “maiali” (“- Dicono che i vecchi – spiegò Arévalo – sono egoisti, materialisti, voraci, rognosi. Dei veri maiali.”), raccontata nella sua evoluzione, dalle prime incerte avvisaglie, al suo assurdo divampare, fino alla sua repentina e inspiegabile conclusione, nelle pagine del Diario, lui rappresenta uno dei protagonisti, ma anche l’osservatore, colui che, seppur implicato, prova a cercare un senso a ciò che avviene, a mantenere nel limite del possibile la distanza necessaria alla comprensione. E riempie lo spazio che faticosamente conquista tra sé e tutta la violenza gratuita che lo stringe sempre più da vicino, di ricordi, di tempo passato, di vita trascorsa, di riflessioni, che sono lampi improvvisi di sconsolata evidenza, di pacata e insieme acuta saggezza e anche, naturalmente, di disillusione (“L’accettazione delle proprie limitazioni può essere una triste saggezza”). Perché Casares in questo libro parla della vecchiaia, andando a cogliere il suo aspetto forse più inaccettabile: non tanto l’inevitabile avvicinarsi della morte, quanto il progressivo senso di estraneità nei confronti della vita. (“Vidal pensò che vivere è distrarsi”). Ma, ovviamente, ne parla nel modo che gli è congeniale, utilizzando l’invenzione, creando una trama fantastica e dando consistenza, spessore e visibilità alle sensazioni e alle paure che l’approssimarsi della fine della vita porta con sé.

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Borges, “Finzioni”

JORGE LUIS BORGES – “Finzioni” – Einaudi

Con lentezza ed estrema cautela, a piccoli passi, un libro ogni tanto. Qui l’aria è rarefatta e da questi labirinti si può anche non uscire. La voce di Borges è quella di una sirena. Se ci si innamora di lui, poi che cosa si può leggere?

 “Non mi sembra inverosimile che in un certo scaffale dell’universo esista un libro totale; prego gli dei ignoti che un uomo – uno solo, e sia pure da migliaia d’anni!- l’abbia trovato e l’abbia letto. Se l’onore e la sapienza e la felicità non sono per me, che siano per gli altri. Che il cielo esista, anche se il mio posto è l’inferno. Ch’io sia oltraggiato e annientato, ma che per un istante, in un essere, la Tua enorme Biblioteca si giustifichi.”

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Borges, “Poesie (1923 – 1976)”

JORGE LUIS BORGES – “Poesie (1923 – 1976)” – Rizzoli

“Il mondo è un certo numero di tenere imprecisioni”

Per Borges la poesia è “l’incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto. E’ la poesia di un’attesa delusa, perchè quel segreto non viene detto e resta nell’ombra.” Così Claudio Magris, nella sua splendida raccolta di saggi “Dietro le parole”, commenta l’arte discreta e ritrosa del Borges poeta.

“Le strade di Buenos Aires

sono già le mie viscere”