Traduzione di Luigi Pellisari, Prefazione di Julio Cortàzar
“La sua vita si dissanguava. Tutto il suo dolore, non più compresso, si estendeva fino all’orizzonte intravisto attraverso i fili telegrafici e le aste di presa dei tram. All’improvviso ebbe la sensazione di camminare sulla sua stessa angoscia trasformatasi in tappeto. Come i cavalli che, sventrati da un toro, s’ingarbugliano nelle loro stesse budella, a ogni passo che dava i polmoni gli restavano senza sangue. Respirava lentamente e disperava di poter mai arrivare. E dove? Non lo sapeva.”
Augusto Remo Erdosain, “inventore fallito e delinquente a pochi passi dalla galera”, compare fin dalla prima pagina del romanzo e subito trascina il lettore per le strade della Buenos Aires di Arlt facendogli respirare la sua atmosfera da bassifondi, colma della vita sempre al limite, sporca e avvilente, faticosamente in equilibrio tra sordidi espedienti e inesausti sogni, della “fauna emarginata e cupa” (per usare le parole di Cortázar) che la popola e che, odiandola, è però a lei unita da un amore maledetto e tenace. È un universo a tinte fosche quello di Arlt, capace di suscitare moti di compassione ma anche di imprevista ilarità, perchè è buffo e sconsolato, a volte decisamente crudo ma non tanto da suscitare disgusto, perché è costruito sui fallimenti, sui sogni e sulle miserie, sulla battaglia ad armi impari di una povera umanità contro un destino che si preannuncia scontato, che non è difficile da comprendere e da compatire. Un universo che l’autore stesso ben descrive nella dedica alla moglie Carmen Antinucci della raccolta di racconti “Le belve” – riportata nella versione italiana del 1980, edita da Savelli – in cui definisce la sua scrittura come “elaborata in vie oscure e paraggi taciturni, in contatto con gente terrena, triste e sonnolenta”, aggiungendo che “gli esseri umani sono più simili a mostri che sguazzano nelle tenebre che ai luminosi angeli delle storie antiche”.

“Nei momenti che seguirono l’aggressione, Eligia era ancora rosea e simmetrica, ma di minuto in minuto le linee dei muscoli del viso cominciarono a incresparsi, un viso ancora molto liscio fino a quel giorno, nonostante i quarantasette anni e un intervento giovanile di chirurgia estetica cui doveva il nasino corto e all’insù. Quella spuntatina volontaria che per trent’anni aveva conferito alla sua testardaggine un’aria di audacia impostata divenne il simbolo della resistenza alle grandi trasformazioni che l’acido stava operando. Le labbra, le rughe attorno agli occhi e il profilo delle guance si andavano trasformando con un andamento antifunzionale: alla comparsa di una curva in un punto che non aveva mai avuto curve corrispondeva la scomparsa di una linea che fino a quel momento aveva costituito un tratto inconfondibile della sua identità”.

“Vidal pensò che nella vita arriva sicuramente un momento in cui una persona, qualunque cosa faccia, annoia soltanto. Resta allora solo un modo per recuperare il prestigio: morire”.
Con lentezza ed estrema cautela, a piccoli passi, un libro ogni tanto. Qui l’aria è rarefatta e da questi labirinti si può anche non uscire. La voce di Borges è quella di una sirena. Se ci si innamora di lui, poi che cosa si può leggere?
“Il mondo è un certo numero di tenere imprecisioni”