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ROBERTO ARLT, “I sette pazzi”, Sur

Traduzione di Luigi Pellisari, Prefazione di Julio Cortàzar

“La sua vita si dissanguava. Tutto il suo dolore, non più compresso, si estendeva fino all’orizzonte intravisto attraverso i fili telegrafici e le aste di presa dei tram. All’improvviso ebbe la sensazione di camminare sulla sua stessa angoscia trasformatasi in tappeto. Come i cavalli che, sventrati da un toro, s’ingarbugliano nelle loro stesse budella, a ogni passo che dava i polmoni gli restavano senza sangue. Respirava lentamente e disperava di poter mai arrivare. E dove? Non lo sapeva.”

Augusto Remo Erdosain, “inventore fallito e delinquente a pochi passi dalla galera”, compare fin dalla prima pagina del romanzo e subito trascina il lettore per le strade della Buenos Aires di Arlt facendogli respirare la sua atmosfera da bassifondi, colma della vita sempre al limite, sporca e avvilente, faticosamente in equilibrio tra sordidi espedienti e inesausti sogni, della “fauna emarginata e cupa” (per usare le parole di Cortázar) che la popola e che, odiandola, è però a lei unita da un amore maledetto e tenace. È un universo a tinte fosche quello di Arlt, capace di suscitare moti di compassione ma anche di imprevista ilarità, perchè è buffo e sconsolato, a volte decisamente crudo ma non tanto da suscitare disgusto, perché è costruito sui fallimenti, sui sogni e sulle miserie, sulla battaglia ad armi impari di una povera umanità contro un destino che si preannuncia scontato, che non è difficile da comprendere e da compatire. Un universo che l’autore stesso ben descrive nella dedica alla moglie Carmen Antinucci della raccolta di racconti “Le belve” –  riportata nella versione italiana del 1980, edita da Savelli – in cui definisce la sua scrittura come “elaborata in vie oscure e paraggi taciturni, in contatto con gente terrena, triste e sonnolenta”, aggiungendo che “gli esseri umani sono più simili a mostri che sguazzano nelle tenebre che ai luminosi angeli delle storie antiche”.

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Roberto Arlt, “Le belve”

ROBERTO ARLT – Le belve – Savelli Editori

“Non potrò mai spiegarti come sono andato precipitando giorno dopo giorno tra gli uomini perduti, ladri e assassini e donne con la pelle del viso più ruvida della calce crepata. A volte, quando considero gli abissi a cui sono arrivato, sento nel mio cervello agitarsi grandi teli di ombra, cammino come sonnambulo e il processo della mia decomposizione mi sembra incastonato nell’architettura di un sogno mai avvenuto”.

Inizio da questi racconti – e in particolare dagli splendidi “Ester Primavera” e “Le belve” – il mio avvicinamento all’opera di Roberto Arlt, al “calore tragico” della sua opera, per riprendere un’espressione di Goffredo Fofi, citata da Grazia Cherchi in un articolo apparso su “L’Unità” nel dicembre 1993 (contenuto in “Scompartimento per lettori e taciturni”). Inizio sulla scorta delle suggestioni e delle sollecitazioni a cui una ormai assestata e convinta predilezione per la letteratura onettiana quasi mi obbligano. Inizio, sostanzialmente, per un bisogno di condivisione, per il tentativo – e non può essere che solo questo – di risalire a quelle radici letterarie, a quelle atmosfere, a quei ritmi narrativi, a quell’aura, impasto di colori, movimenti e sospensioni, che Onetti deve aver respirato e dai quali la sua penna deve essersi ispirata. E, come sempre avviene durante queste ricerche, quello che alla fine si trova, più che spiegare, apre nuove prospettive. In questo caso, su quella letteratura argentina del Novecento che sempre più mi appare affine e imparentata alla letteratura europea del secolo scorso, radicata in profondità nello stesso ricchissimo humus di cui quest’ultima si nutre.

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