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letteratura portoghese

António Lobo Antunes, “Non è mezzanotte chi vuole”

ANTÓNIO LOBO ANTUNES – Non è mezzanotte chi vuole – Feltrinelli

Traduzione di Vittoria Martinetto

Camminare

“Non mi ricordavo più che ci fossero così poche luci in questo posto salvo uno o due lampioni fra gli alberi, una o due lanterne sopra la porta d’ingresso e l’alone del mare, la casa buia, la strada buia, dopo il pozzo una tenebra di arbusti che rabbrividisce al vento e si riappacifica, non li vedo, so soltanto che esistono, mi muovo in questa casa perché la luna, quando le nubi si dimenticano di nasconderla, inventa pareti più grandi delle pareti del giorno che mi permettono di spostarmi fra di loro, chissà se è in questa casa che ho abitato o in un’altra inventata dalla luna, un bagliore sui vetri, un listello del pavimento, una cassa che si sono dimenticati con dentro posate e vestiti, dove mi trovo io, infatti, sembra che voci e non voci, presenze e non presenze e tuttavia il sospetto, in un angolo dell’anima, che abbiamo abitato qui…”

Pensare di giungere al limite estremo di sé, immaginare di giungere ad un passo dal non essere più, potrebbe sicuramente sembrare una cosa terribile, ma in fondo tanto definitiva da apparire semplice, semplice e, soprattutto, muta, senza echi, rimandi, ritorni, sussulti. Perché l’estinzione, quella vera e totale, chiude, taglia, elimina, dissolve nel non essere tutto ciò che è stato, per avventura, caso, capriccio della sorte e anche per coraggiosa determinazione. Che cosa succede quando la letteratura, questo gioco esigente ed impudente, si appropria anche di questo estremo limite e trova la sua linfa vitale lungo i passi che conducono un’anima verso il suo annientamento, lo dimostra questo intenso, e sorprendentemente vitalissimo, libro di Antunes. Che si appropria di tre giorni – gli ultimi tre giorni di una vita che finisce, per un più che fondato sospetto di esaurimento fisico, ma anche e soprattutto per difetto di senso, di un qualsiasi senso a cui aggrapparsi per proseguire – tre giorni nell’avanzato declinare di un’estate, e ne fa lo spazio entro cui distendersi e fiorire. Di quella fioritura unica e irripetibile di certe piante che impiegano una lunga vita per accompagnare la propria fine con la bellezza delle forme e del colore.

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José Saramago, “L’anno della morte di Ricardo Reis”

JOSÉ SARAMAGO – L’anno della morte di Ricardo Reis – Feltrinelli

Asterusher

“Quella sera, ormai tardi, Ricardo Reis scrisse alcuni versi, Come pietre che sul bordo delle aiuole mette il fato, e lì restiamo, questo solo, più tardi avrebbe visto se da così poco sarebbe riuscito a ricavarne un’ode, per continuare a dare questo nome a composizioni poetiche che nessuno saprebbe cantare, ma erano poi cantabili, e con che musica, com’erano state quelle dei greci, ai tempi loro. Vi aggiunse ancora, mezz’ora dopo, Compiamo ciò che siamo, nulla di più ci è dato, e scostò il foglio di carta, mormorando, Quante volte l’avrò già scritto in altri modi”.

Che il poeta portoghese Fernando Pessoa costituisca insieme ai suoi eteronimi una moltitudine, “una sola moltitudine”, è noto a tutti i suoi lettori ed estimatori. E che questa moltitudine sia in realtà una costellazione poetica che cerca tutte le strade possibili per dire ciò a cui una sola voce potrebbe a stento tentare di avvicinarsi è altrettanto noto a chi legge la straordinaria quantità di versi che la compongono, ritrovandosi sul limitare di sensazioni anch’esse multiple e non sempre facilmente definibili che oscillano tra una insopprimibile pena, una commossa condivisione e un senso di vertigine per effetto della lucidità e della profondità con le quali essi vanno tratteggiando il ritratto interiore di una individualità capace di osservarsi con disillusione e disincanto, senza però mai banalizzare se stessa e quel groviglio interiore che è insieme la sua ricchezza e la sua dannazione.

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Mario De Sa-Carneiro, “Dispersione”

MARIO DE SA-CARNEIRO – Dispersione – Einaudi

decarneiro-dispersione“Io non sono io né sono l’altro,/ sono qualcosa di intermedio:/ pilastro del ponte di tedio/ che va da me all’Altro.”

C’è nei versi di questo giovane poeta, giovane per sempre, una disperazione lancinante, a tratti atroce, sempre in qualche modo colta e trattenuta sulla soglia del lamento, una disperazione non certo rassegnata o negata, che però si osserva e, osservandosi, trova il modo di dosare se stessa, di rifrangersi in mille immagini, di mostrarsi dimessa o parata a festa, di muoversi elegante e drammatica, di disperdersi per permeare di sé tutti gli angoli di una vita e negare ogni possibile illusione o speranza. “Dispersione” è appunto il titolo di una delle raccolte di poesie contenute nella presente edizione, quelle scritte dall’autore a Parigi nei due anni precedenti il suo suicidio. Un povero giovane inquieto, inabissato nell’ansia, smarrito nel labirinto di se stesso, senza oggi né domani, incapace di provare nostalgia per il proprio passato, ma solo per ciò che non è stato (“Ah, quanta nostalgia/ dei sogni che non sognai!”), che sente avvicinarsi la propria morte – la dispersione totale – e prova pena per sé, così privo di legami o di passi da seguire, che cerca continuamente nella poesia le parole che, uniche, possano realmente dire il dolore, donandogli almeno una sicura esistenza: “Mi cade nell’anima il crepuscolo;/ io fui qualcuno che passò”; un povero e grande giovane, troppo lucido per non perdersi: “Ho smarrito morte e vita,/ e, pazzo, non impazzisco”.

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Branquinho da Fonseca, “Il barone”

ANTONIO JOSE’ BRANQUINHO DA FONSECA – “Il Barone” – Sellerio

“Come un miraggio di conforto, di intimità, di benessere”

Una notte portoghese, il ritmo dolente e appassionato di un fado, la misura, perfetta nella gestione dei tempi del racconto che, però, non inquadra e contiene, ma allude, crea atmosfere, conduce il lettore solo all’imbocco di strade sconosciute. Un personaggio grottesco e folle, che tocca corde sensibili e turba con la sua ingenuità improvvisa e con la sua inaspettata liricità così suggestiva. Un racconto notturno, quindi, che si apre con l’entrata in scena di un oscuro, rozzo e mefistofelico uomo misterioso e che, dopo una notte di eccessi, musica e frantumati ricordi, si chiude con la dolcezza simbolica di una rosa bianca. In mezzo c’è tutto il tempo per rimpiangere l’amore, evocarlo, invocarlo, inventarlo, senza mai, e questo è geniale, raccontarlo.

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Pessoa, “Il libro dell’inquietudine”

FERNANDO PESSOA – “Il libro dell’inquietudine”- Newton Compton

“Dal mio quarto piano sull’infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, a una finestra che dà sull’inizio delle stelle, i miei sogni si muovono con l’accordo di un ritmo, con una distanza rivolta verso viaggi a paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili.” Fernando Pessoa è un grande poeta, una delle voci più alte del Novecento. Dopo una prima giovinezza in Sudafrica, trascorse il resto della vita a Lisbona, dove era nato nel 1888 e dove lavorava come impiegato in una ditta commerciale. Morì nel 1935. Fu un grande animatore dei circoli culturali della sua città, fondò e diresse moltissime riviste letterarie, esercitando un’influenza decisiva sul mondo intellettuale a lui contemporaneo. Fu uno scrittore molto prolifico, ma pubblicò ben poco durante la sua vita. Morendo lasciò però un baule pieno di suoi scritti che in seguito vennero pubblicati in Portogallo e gradualmente tradotti e pubblicati in molti paesi europei, Italia compresa. Ancora oggi non si è esaurita questa miniera, la ricchezza incredibile della sua anima, che Pessoa sembra aver voluto lasciare in eredità ai suoi futuri lettori e, ogni tanto, escono in Italia nuovi suoi testi in forma di poesia, narrativa o saggistica.

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Saramago, “Cecità”

JOSE’ SARAMAGO – “Cecità” – Einaudi

Josè Saramago, premio Nobel per la Letteratura 1998, è lo scrittore portoghese più famoso del mondo. È nato nel 1922 ad Azinhaga, in Portogallo ed è morto nel 2010 dopo una lunga, produttiva e lucidissima vecchiaia trascorsa a Lanzarote, nelle Canarie, con la seconda moglie Pilar e con tre cagnolini.

Ha scritto romanzi geniali, fantasiosi, formalmente elegantissimi e non ha mai deluso i suoi lettori, a testimonianza di quanto possa essere feconda d’ingegno, saggezza ed ironia l’ultima età di un uomo. Saramago non concepisce il lavoro letterario come un piacere individuale. Per lui è un lavoro a volte duro, quasi drammatico. Inoltre non capisce come un autore possa impegnarsi solo con i suoi testi e non con la società in cui vive. Le sue storie sono tutte potenti allegorie, aspramente critiche nei confronti del potere. Saramago non intende l’autore come un eletto dal Cielo che, ispirato, concepisce la sua opera, ma come un combattente che porta avanti la sua personale lotta contro l’indifferenza e la perdita di significato dei tempi moderni. L’universo narrativo di questo autore denuncia le frustrazioni di un’epoca che ha smarrito sia il senso della vita, sia la giustificazione della morte.

In “Cecità”, Saramago ha scelto la via dell’affresco apocalittico per denunciare con intensità di immagini e durezza di accenti la notte dell’etica in cui siamo sprofondati.