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Giorgio Manganelli, “Tragedie da leggere”

GIORGIO MANGANELLI – Tragedie da leggere – Bompiani

tragedie-da-leggere“Lasciatemi il mio nulla. Non c’è donna, né vino, né cibo, né figlio, né sangue di nipote, non c’è lussuria, vendetta, placata gola, fasto di vestiti, gloria di re, massacro di eserciti che abbia più luce e durata e forza del mio nulla… Ti lascio il sangue del mio nemico, ti regalo la verginità di mia figlia, mi faccio mezzana della sposa in bianco, ma non insidiare questo bambino d’oro, questa femminuccia che brilla, questo niente duro e compatto… Chi vuole futuro? Chi vuole cosa diversa dalla solitudine? Morire senza amici, senza servi, senza figli, nella casa sprangata, che il fantasma possa gustare ancora, totalmente invisibile eccetto ad altri fantasmi invidiosi, quel mio nulla segreto…”.

La voce del Don Giovanni manganelliano è una delle tante che, poderose e incalzanti, risuonano su questo palcoscenico così volatile e impreciso, luogo di parole che per la loro stessa forza si fanno figure, figure e attori, astrazioni che si fanno carne, impegnate nello sforzo di creare ciò che per sua natura attiene all’inafferrabilità, all’astrazione e alla menzogna. La parola finge di essere tangibile per creare il teatro che finge di essere realtà. Da una finzione all’altra, la parola dal nulla chiamata al nulla ritorna. Nel tragitto si allarga lo spazio scenico, transitorio, metamorfico, sfuggente, che si disfa e si ricrea sotto gli occhi del lettore-spettatore, invenzione mirabile, oppure provocatoria e dissacrante, oppure persino un poco sordida che comunque sa come agire, come attrarre a sé e come permanere: “Voi uscirete di qui colti, pensosi, litigiosi, uxoricidi, figli ribelli, mogli adultere, ufficiali dimissionari; in ogni modo migliori”. Perché non c’è gioco che come la finzione sappia irretire e la finzione manganelliana si dispiega all’ennesima potenza.

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Giorgio Manganelli, “Il rumore sottile della prosa”

GIORGIO MANGANELLI – Il rumore sottile della prosa – Adelphi

il rumore sottile della prosa“Nella mia vita fin dall’infanzia ho sempre praticato il peccato di lussuria libraria. Ho amato i libri di amore passionale, poligamico, vizioso, incontinente, maniacale. Ho sedotto e stuprato libri. Ho abbandonato libri in stato interessante. Ho ucciso libri per gelosia, altri ho scelto per odio di altri libri che non volevano amarmi”.

Nella sterminata produzione manganelliana queste pagine potrebbero essere considerate la summa della sua personale teoria letteraria, diligentemente redatta sviluppando e approfondendo sezioni ordinatamente disposte riguardanti la scrittura, la lettura, la critica, la disanima intorno a quegli strumenti essenziali al letterato che sono i cataloghi e i dizionari e intorno alla utilità, o inutilità, dei premi letterari. Ma chi conosce Manganelli sa bene di trovarsi di fronte, per sua ammissione, ad una persona che “da sempre soffre di una dolce demenza libraria” e sono proprio le gocce di questa demenza, intesa come sguardo rigorosamente personale, atipico, fuorviante, del tutto refrattario ad idee preconcette, sguardo dunque felicemente anomalo e per sua natura rigorosamente sovversivo, a generare, quasi beffardo disinganno al suo inoffensivo ordine strutturale, la natura adescatrice di questo libro che, mentre di letteratura si occupa, è esso stesso esempio di affascinante e coltissima letteratura, di metaletteratura si potrebbe dire, se non fosse chiaro quanto Manganelli scrittore – e Manganelli scrittore critico – sfugga ad ogni tentativo di definizione.

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Giorgio Manganelli, “Dall’inferno”

GIORGIO MANGANELLI – Dall’inferno – Adelphi

Giorio Manganelli, "Dall'inferno"“… immaginatevi un universo che sia tutto, dico tutto, pervaso dall’inferno, che lo penetri in ogni orifizio, lo accompagni in ogni profilo, si accoccoli tra suoni, odori, membra, animali, angeli, superni ed infimi. Che non vi sia assolutamente, non si dia luogo alcuno dell’universo in cui l’inferno non penetri, ma insieme che non vi sia luogo che si possa dire inferno, tutto inferno e nient’altro che inferno”.

Una lingua portentosa, cangiante, mutevole, portata per sua natura all’iperbole, alla metafora ardita e a tutti i giochi che la retorica le mette a disposizione, che si destreggia tra termini desueti, ridando loro vigore e smalto, accendendoli con un ritmo nuovo, e neologismi sostenuti da un profluvio di aggettivazione; una lingua che stordisce, invadente e armoniosa, una prosa cantante e raffinatissima: questo è il viatico – l’unico – che Manganelli concede a chi si appresti ad inoltrarsi al seguito di un Soggetto, che poco sa di sé e che ancora meno mostra di certo e definitivo al lettore, in un aldilà – un supposto inferno – sfuggente e contraddittorio, luogo non luogo, instabile, metamorfico, letteralmente indescrivibile, che definire terra di nessuno sarebbe già una rassicurante certezza. Una rutilante costruzione formale che veleggia felice nell’eccesso – in precisione e in estenuata variazione – sostiene un romanzo, se tale può definirsi, o comunque una fabula, che è un sogno, un incubo, una disquisizione intorno alle cose ultime, un viaggio nell’oltretomba, un’indagine sul significato dell’esistenza e della sua fine, un gioco intellettuale, una fantasiosa e cervellotica immaginazione, che è tutte queste cose insieme, ma nessuna di loro fino in fondo, perché nessuna di loro potrebbe spiegare quella sorta di malìa che spira da queste pagine, che avvince nonostante la nebulosità diffusa che si è costretti ad attraversare, quella alternanza di giocosa leggerezza, di arguzia ammiccante, di profonda angoscia, di comicità surreale che è in grado di emanare.