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letteratura svizzera

Muschg, “Storie d’amore”

ADOLF MUSCHG – “Storie d’amore” – Marcos y Marcos

Parafrasando il titolo di un famoso libro di Carver, mi chiedo: di cosa parla Muschg quando parla d’amore? Una domanda più che legittima, perché ho già potuto conoscere la scrittura di questo autore leggendo i nove racconti che costituiscono l’altro suo unico libro disponibile in traduzione italiana, la raccolta intitolata “L’impiccato”, e sono quindi consapevole che, come suggerisce Magris, chi incontra Muschg deve essere pronto a compiere insieme a lui “spedizioni in continenti inquietanti”, salti in nuove dimensioni, dove “assolutezza esistenziale” e “ambiguità fantastica” si legano in un nodo inestricabile. Bisogna quindi avvicinarsi con cautela a queste sette storie, definite da un titolo così inoffensivo, che appare addirittura un po’ ironico; inoffensivo e a suo modo tranquillizzante, perché allude a quella infinita serie e varietà di accadimenti e di situazioni di cui la vita e la letteratura rendono esperti o, comunque, consapevoli. Bene, nessuno di questi racconti parla di amore nel senso tradizionale del termine: sono perfette macchine narrative, taglienti e inospitali, prive di angoli in cui il lettore possa riposare cullato da una parvenza di riconoscimento. Sono pagine che interrogano e che provocano la necessità della rilettura, perché bisogna inoltrarsi almeno una seconda volta in un terreno sconosciuto per iniziare, se non a comprenderne tutti gli aspetti, almeno a coglierne la bellezza. Sono sette racconti magnifici e il fatto che siano stati scritti circa vent’anni prima de “L’impiccato” la dice lunga sulla grandezza di questo autore, considerato a ragione l’erede di Durrenmatt e di Frisch.

ecco il repertorio di “casi” che Muschg ci presenta, storie di meschinità, di “piccoli delitti”, tentativi di sopravvivenza; li presento senza riassumerli, per non rovinare il piacere della lettura a chi vorrà conoscerli. Un procuratore quarantacinquenne, un uomo di successo che con facilità si trova un’amante, quasi senza desiderarla veramente, ma “perché avrebbe voluto essere un uomo come gli altri, con tutti i requisiti che si convengono” e che vive questa storia come un dovere da compiere, senza provare per la donna né tenerezza né repulsione, pregustando però, alla fine di ogni incontro, “l’atteso e ben meritato momento del congedo”. Il povero pastore cinquantasettenne, padre incestuoso, costretto a vivere con le figlie nell’isolamento più completo e a sopportare la più nera miseria materiale e la più cupa segregazione da ogni rapporto umano, che spiega in una lettera alla sezione inquirente che lo deve giudicare la motivazione del suo rapporto innaturale con le figlie: “… allora io prego Lor Signori di non dare troppa importanza ai rapporti sessuali, come del resto abbiamo fatto noi, perché era la pace ciò che veramente contava e non abbiamo certo dato noia a nessuno, anche se non ci è stato mai permesso di dormire sonni tranquilli. Posso assicurar loro che la lussuria non è mai stata un puro piacere, perché questo non può esistere all’Alpe di Torggel, ci ha solo dato un po’ di conforto”. Il contabile, terrorizzato dalla paura della povertà, che vive in difesa, temendo in ogni momento che una sorte avversa possa colpirlo e che, quando finalmente si sente al sicuro, incontra un musicante girovago nel quale, nel suo delirio, vede l’incarnazione della minaccia di tutte le disgrazie che il destino ha in serbo per lui: “… vuote strade del sud dove, acquattato in un angolo, ha ordito la fine del mio matrimonio, dove è in agguato per colpire di nuovo, definitivamente, trasformatosi da angelo in avvoltoio, mi sottrae l’ultimo appiglio della mia paura per farla nuovamente cadere nell’abisso senza fondo. Infatti chi ha da opporre alla vita così poca paura come quest’uomo deve avere degli agganci mostruosi, con la paura deve aver stretto un patto e io so che un giorno me la metterà sotto gli occhi, come un conto troppo salato o come un’arma. Sono sicuro che in un batter d’occhio potrebbe trasformare il suo strumento musicale, la sua sega, in uno strumento di morte”. Il padre separato che va a far visita al figlio, portando con sé ben nascosto il suo senso di colpa per averlo abbandonato e che fugge, quando diventano palesi i danni che il suo egoismo ha prodotto nell’animo del bambino. Il fotografo di rovine che, per una caduta, si trova improvvisamente a vivere un incubo terrorizzante: una spina di cactus, che la superstizione popolare crede mortale, si sta lentamente dirigendo verso il suo cuore e lui vive “giustiziato dalle sue stesse vene”, nell’affanno e nella esasperazione, la lunga fuga verso una salvezza che crede impossibile e che, quando finalmente arriverà, non sarà di conforto: “Si sentiva come un acrobata cieco che alla fine, com’era da aspettarsi, è precipitato dalla fune – e si rende conto che la corda era tesa a poche spanne da terra. Oppure, la sua caduta è così gigantesca da essere inavvertibile, come il movimento di rotazione della terra. Il pensiero che ora sia anche possibile vivere lo attraversa come un dolore”. L’anziano nonno che, in un futuro non precisato ma apocalittico, racconta ai suoi nipoti, malati di una oscura malattia che colpisce i nuovi nati della futura umanità colpevole, una storia a metà tra favola e sogno, per cercare di far loro capire che cos’era, un tempo, l’amore. Ma è una povera storia, l’incontro con una giovane prostituta, che invano lui ha cercato di confortare con la sua tenerezza, così come invano cerca ora di suscitare nel bambini, crudeli e curiosi, almeno un po’ di comprensione e di commozione. Infine, il funzionario del crematorio, reo confesso del delitto di spoliazione di cadavere e la storia della sua meditata e complicata vendetta ai danni della moglie, un lungo viaggio nella psicologia malata di un uomo che vive “… in una quotidianità agiata, ma avvolta da un grigiore inesorabile, simile a una cappa di nebbia, senza temporali o vere schiarite” e che invidia i morti, perché “… si erano lasciati tutto alle spalle e sembrava che avessero conquistato con onore quell’espressione di pace sui loro volti, mentre a lui restava l’onorabilità, ma mancava la pace”. Di che cosa parla quindi Muschg, quando parla d’amore? Io credo che parli di intensità, di passione e di smarrimento, che certo ne sono gli effetti e i sintomi, ma ciò che accomuna queste sette storie è sicuramente il tentativo, più o meno riuscito e talvolta maldestro, dei loro protagonisti di trovare sollievo e consolazione alle più diverse forme di paura. Paura della morte, della povertà, della solitudine, del senso di colpa, dell’aridità del cuore, del tradimento, tutte paure vissute con una intensità misteriosa e talmente insostenibile che forse la consolazione, da qualsiasi parte arrivi, è una forma d’amore.

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