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letteratura italiana

Antonio Moresco, “La lucina”

Antonio Moresco – La lucina – Mondadori

“E io qui, seduto su questa seggiola di ferro che sprofonda sempre più nel terreno, in questo posto fuori dal mondo, a una simile distanza da tutto e dallo spazio e dal tempo e dalla mia vita e dalla mia morte…”

Potrei facilmente definire questo libro di Moresco commovente, ma la pura e semplice commozione è solo un effetto epidermico che non rende tutto il merito che è dovuto a questa splendida scrittura, disadorna, arresa e feconda. A che cosa parla, che cosa sommuove questa breve e intensa narrazione? Quali profondi pertugi nascosti, negati o volutamente dimenticati illumina questa lucina, lontana ma ben visibile e persistente? Quello che smuove e tiene avvinto a sé, costringendo il lettore a procedere in una sorta di dolorosa fascinazione, non ha a che fare con il cuore, così pronto a battere in sintonia con tutto ciò che lo sollecita, ma così altrettanto pronto a dimenticare per inseguire altri e più soddisfacenti stimoli. La narrazione di Moresco – questo a me appare come uno dei suoi segni distintivi – attraversa i sentimenti in profondità, li presuppone, come un accessorio non evitabile dell’esistenza, riserva loro uno sguardo affettuoso e persino grato, lo sguardo di un saggio, forse di un asceta, ma li abbandona in superficie in questo suo viaggio che punta diretto al senso profondo delle cose, o meglio alla domanda testarda sull’inesistente senso delle cose. Le cose ultime, quindi la vita e la sua fine.

“La lucina” è un libro costruito intorno ad un interrogativo metafisico che lo renderebbe un romanzo filosofico, o una scrittura al limitare del dire filosofico, se non fosse dotato di una potente e affascinante carica affabulatoria. Perché questo è Moresco: asceta e cantore. E avvince doppiamente i suoi lettori perché addita loro l’essenziale, sfrondandolo da tutti gli orpelli e, su quello che rimane – che per un altro sarebbe il nulla – costruisce il suo castello narrativo, fatto di poche e povere cose, di poche e povere creature che, nelle sue mani, si trasformano in un mondo straordinariamente ricco e allusivo. Essenziale ma mai minimalista, la narrazione si inventa così trame ed enigmi, mentre attiene al sogno, al ricordo ed alla identificazione, si svolge là dove la natura dimenticata prende il sopravvento sull’uomo e, potente, crudele e rigogliosa, mentre perpetua i suoi cicli, come in una foresta di Max Ernst, svela al lettore i suoi angoli celati, i suoi segreti e le sue suggestioni.

“La lucina” è un romanzo sulla sparizione, sulla resa al destino incomprensibile che decreta la fine per tutto ciò che per breve tempo ha avuto la ventura di essere creatura; e il suo bellissimo incipit – “Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante” – è come una promessa che alla fine viene mantenuta, un programma che viene regolarmente condotto a termine nelle ultime pagine. Ma nello spazio tra la prima e l’ultima riga del romanzo, nello spazio pur limitato di questa narrazione che – a detta del suo autore – è come una scheggia, “una piccola luna” prepotentemente uscita da una massa creativa ancora in elaborazione, a pretendere una propria vita autonoma – c’è posto per una drammatica “apocalisse vegetale”, per intere pagine di una struggente storia naturale delle più umili e insignificanti creature viventi e, soprattutto, c’è posto per l’uomo e per il bambino, per la vita che è quasi morte e per la morte che è ancora vita, c’è la sosta sul limitare, che forse è proprio il luogo in cui si annida la poesia. L’uomo e il bambino, personaggi di questo romanzo, esattamente come lo sono le rondini, le lucciole, il cane dalle ossa rotte, i gigli, i tassi, il castagno mezzo vivo e mezzo morto, i polloni e i rampicanti del “sottobosco cattivo”, persino gli esseri alieni soltanto immaginati o resi plausibili dalle farneticazioni di un pastore che coltiva la sua privata forma di pazzia, perché tutti condividono l’esperienza dell’incomprensibile, seppure a diversi livelli di coscienza, per tutti vale la domanda dell’uomo, quella che accompagna i suoi passi solitari: “La loro vita sarà infelice come la nostra? Anche per loro solo il dolore e il male porteranno distrazione, almeno per qualche istante, all’infelicità? Avranno anche loro quel sogno breve e crudele che è stato chiamato amore?”.

Nulla è più struggente in questo romanzo – struggente perché parla a qualcosa che è ben riconoscibile, benchè annidato sotto strati più o meno densi di distrazioni, illusioni, costruzioni intellettuali – della ciclica quotidianità che perpetua i suoi riti – i suoi poveri riti – nella rassicurante abitudine della cura di sé e delle proprie cose come ordinato argine alla disperazione della insensatezza. L’uomo che lava la biancheria sporca nella bacinella di plastica, che la stende su una corda tesa tra due pali scortecciati, che lava i piatti di sera nella casa di pietra nel silenzio assoluto. Il bambino che lava i piatti in piedi su una cassetta rovesciata per poter arrivare con le mani al rubinetto del secchiaio e lo fa per bene, come tiene tutte le sue cose in ordine e perfettamente pulite, che lavora senza lasciarsi distrarre al mantenimento della sua parvenza di vita, come se la vita stessa non fosse già finita.

Un “come se” che stringe il cuore, perché è il “come se” che è al fondo dell’agire umano e dell’umano pensare. Una pena che pervade – vera e profonda – ogni pagina di questo romanzo: pena per il passato e per il suo inutile e perciò crudele dolore, ma pena anche per il presente, altrettanto privo di senso. Una pena che Moresco ha reso immagine e carne, donandole la forza della creazione letteraria. Una pena feconda che ha dato voce e storia a un bambino in calzoncini corti con la testa rasata, un bambino morto perché “questo è un brutto mondo, per viverci…”. Colui che tiene accesa la lucina che è nostalgia per la pur crudele vita ormai finita e irresistibile richiamo a raggiungere il suo inevitabile compimento per chi, abbandonando gli uomini, ha già compiuto il primo passo verso l’annientamento, lasciando dietro di sé solo il rigoglioso “tormento vegetale”. Pena: “Che pena fanno i bambini morti quando escono così dalle scuole buie, di notte, da soli! Ma poi… non fanno altrettanta pena i bambini vivi?”.

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Alessandra
9 years ago

Non so se sono rimasta più affascinata da ciò che racconti o da come lo racconti. Quando avrò l’occasione di leggere il libro, tornerò poi a rileggere anche la tua bella recensione.

poetella
7 years ago

beh… la critica è bellissima.
Partecipata ed entusiasta. Di gran lunga superiore al romanzo che recensisce.
Che, personalmente, non sono riuscita a finire.
Qui, se volessi leggere, il mio parere sullo stesso:

https://poetella.wordpress.com/2013/03/20/a-proposito-di-la-lucina/

complimenti per il blog.
Tornerò

poetella
7 years ago

sicuramente tornerò.

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