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LÁSZLÓ KRASZNAHORKAI, “Seiobo è discesa quaggiù”, Bompiani

Traduzione di Dóra Várnai

“… oggigiorno [..] non c’è più un sopra e un sotto, un alto e un basso, c’è solo un mondo, qui in mezzo, dove viviamo, dove passa la linea numero uno e la quattro e la sette, e dove c’è il Louvre, e dove al Louvre c’è la Venere che guarda un punto imperscrutabile, misterioso, lontano, se ne sta lì, a volte la mettono qui, a volte la spostano di là, e lei se ne sta dove la mettono, e volge orgogliosamente la testa in quella direzione misteriosa, e irradia, irradia la sua bellezza nel nulla, e nessuno capisce, e nessuno percepisce quanto doloroso sia questo spettacolo, una dea che ha perso il suo mondo, una divinità potente, immensamente potente – eppure ridotta a non aver più nulla.”

Dopo lo splendido ciclo di romanzi costituito da “Satantango”, “Melancolia della resistenza”, “Il ritorno del Barone Wenchkheim” e “Guerra e guerra”, Krasznahorkai torna disponibile per i lettori italiani con una raccolta di racconti ponderosa e ricchissima, che sollecita e interroga, andando a comporre, pagina dopo pagina, una sorta di specchio nel quale riconoscersi –  perché ognuno di noi ha potuto sperimentare in alcuni momenti il potere della grande arte –  e nel contempo perdersi, perché mostra gli abissi di una profondità e di una pienezza spesso solo intuite ma comunque sempre ricercate.

Non vi è dubbio che l’autore ungherese sia con la sua quadrilogia il cantore dell’apocalisse moderna, o meglio, il suo recensore o geniale e immaginifico cronista, colui che mostra, attraverso i suoi personaggi stralunati e i suoi paesaggi, urbani e non, in malinconico disfacimento, il lento e inglorioso avvio del mondo che conosciamo, e in cui siamo immersi, verso la sua fine. Un’apocalisse sempre sottesa e camuffata all’interno di storie e immagini che sono anche vivide metafore, enigmi e giochi strutturali che stupiscono e coinvolgono il lettore, richiedono la sua collaborazione, lo rendono in un certo senso complice dell’autore in un viaggio che sembra infinito, perché Krasznahorkai è uno scrittore estremamente generoso e non dispensa la sua meravigliosa scrittura a piccole dosi, ma al contrario la ama a tal punto da lasciarla scorrere come un fiume in piena.

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László Krasznahorkai, “Satantango”

LÁSZLÓ KRASZNAHORKAI – Satantango – Bompiani

Satantango

“Cullati dai suoni vellutati della fisarmonica, i ragni della kocsma si lanciarono al loro ultimo attacco. Fecero calare leggere reti sopra le bottiglie, i bicchieri, le tazze, i posacenere, circondarono le gambe dei tavoli e delle sedie, dopo di che – con alcuni lievissimi fili segreti – congiunsero tra loro quelle reti, come se per loro fosse importante percepire ogni minimo movimento, ogni più piccolo fremito, nascosti nelle loro tane oscure e insvelate, finchè quella loro rete misteriosa, perfetta e quasi invisibile, rimaneva inviolata. Intrecciarono i visi degli addormentati, i loro piedi e le loro mani, poi velocissimi corsero a nascondersi nei loro rifugi, per poter ricominciare quel criptico lavorio in attesa del fremito di uno di quei fili tenui come un soffio”.

Così termina la prima parte di “Satantango” e anche il capitolo dedicato a quel tango “satanico” da cui ha origine il titolo musicale, misterioso e anche vagamente inquietante del romanzo, capitolo centrale nell’economia della narrazione, perché prelude ad una svolta, pone termine ad una lunga attesa, celebrando una sorta di rito pagano, dionisiaco si potrebbe dire, perché l’alcool e il ritmo lento e suadente della fisarmonica induce tutti i presenti – il gruppo di protagonisti di questo romanzo corale – ad abbandonare i propri freni inibitori e a lasciarsi trasportare dalla travolgente e nostalgica melodia. E nessuno fa più caso al fatto che la danza calpesti il pavimento lurido di una bettola circondata dal nulla, che i cavalieri siano uomini abbruttiti dalla fatica di una vita precaria e senza speranza, che le dame siano donne squallide e volgari e che tutti indifferentemente siano sotto l’effetto dei litri di pálinka (il tradizionale liquore ungherese) ingurgitati con ingordigia e disperazione.

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