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letteratura italiana

Mari, “Verderame”

MICHELE MARI – “Verderame” – Einaudi

“Un affabulatore maestoso”

Leggendo Mari ho sempre la rassicurante impressione di trovarmi di fronte ad un autore dotato di una sorta di magazzino letterario inesauribile a cui attingere, fatto di ricordi e di impressioni radicati e profondi, di letture, studi, cultura – illuminati, tutti, da vera passione – sicurezza e coraggio nell’utilizzo di uno stile raffinato ma, nello stesso tempo, spontaneo e assolutamente distante dall’artificiosità. A tutto questo si aggiunge, tangibile, il divertimento, quello vero di chi, scrivendo, fa ciò che ama fare. Un’impressione rassicurante per il lettore che, da una parte non è condannato a seguire sperimentazioni sterili dettate dall’ansia della novità e dell’originalità a tutti i costi e, dall’altra, sente di affidarsi a chi sa bene dove portarlo, a chi non deve trovare ogni volta qualcosa di nuovo da dire o da raccontare, perché tutto è già saldamente nelle sue mani, perché si muove in un territorio conosciuto e profondamente amato.

Se non avessi letto altri libri di Mari, potrei definire “Verderame” come un romanzo di formazione, con forti connotazioni autobiografiche, ma ormai sono convinta che materia di tutti i suoi scritti sia proprio la sua formazione, la sostanza in cui si identifica. E allora entriamo in questo repertorio che l’autore custodisce e conserva, con lo scrupolo attento del collezionista, combattendo senza speranza per trattenere tutto, per tenere tutto insieme, per costruire un baluardo contro l’”horror vacui”, il cosiddetto mostro definitivo, mentre dona al lettore la liberatoria sensazione che qualcuno stia lottando anche per lui.  C’è un termine che sembra a Mari molto congeniale, che ricorre spesso nel suo lessico e che si fa portatore di suggestioni positive e un po’ misteriose: affabulatore. Gli affabulatori, gli scrittori di romanzi d’avventura, di mare e di mistero, che hanno reso incantati gli anni della sua infanzia e della sua adolescenza, sono responsabili del suo sguardo sulla realtà. A questo non si sfugge, o meglio, a questo non sfugge chi non riesce a considerare la letteratura solo un mero passatempo o, peggio, un intrattenimento: si finisce sempre per diventare, almeno un po’, ciò che si legge. I libri di Mari sono sempre, in questo senso, metaletterari, sono letteratura che trova nutrimento nella letteratura. Il Michelino di “Verderame” è l’incarnazione di un omaggio, a Stevenson, a Verne, Melville e Poe, ma anche a Hoffmann e a Lovecraft; tutto lo svolgersi dell’intreccio del romanzo è un omaggio alla letteratura che ha formato Michele Mari, ma anche tanti dei suoi lettori, me compresa. “Verderame” è un romanzo avvincente, costruito mediante una gestione sapiente dei tempi narrativi; l’indagine condotta da Michelino per scoprire il passato del vecchio Felice riserva momenti di tensione e colpi di scena, in linea con la tradizione dei migliori romanzi d’avventura. “Ero un esteta in erba che indagava per amore del brivido e dell’effetto” dice di sé Michelino, dice ovviamente di sé Michele Mari. L’effetto e il brivido non mancano in questo romanzo perché, come ben sanno i maestri scrittori che sono i lumi tutelari del libro, non c’è avventura più avvincente di quella che si vive affacciandosi sull’orlo di quel pozzo senza fondo che è la mente umana. E allora l’autore costringe il suo Michelino ad immergersi in ciò che più lo inquieta, ma che nello stesso tempo lo attira: i temuti (ma amati) mostri, i demoni del disgusto e del raccapriccio, le zone d’ombra della malattia mentale e quelle ancora più terribili della perdita della consapevolezza di sé, della propria identità. Fino ad arrivare all’estremo orrore del doppio e della follia. “Quell’estate avevo tredici anni e mezzo. Adesso che ne ho cinquanta posso dire che da allora non è cambiato niente, perché la doppiezza è sempre stata la mia condizione: mai però sono riuscito ad accertare se la mia scissione sia solo psichica o anche ontologica. Secondo Felice convivevano in me un morto ed un vivo: devo ritenermi un vile se non sono mai voluto andare a fondo alla questione?”. Ecco di che cosa è fatto questo romanzo, che vive di quella “letterarietà sanguinosa” che è un po’ la cifra della scrittura di Mari. Un’ultima considerazione riguarda il linguaggio, che appare, come in tutti i libri di questo autore, esuberante, ricco e “coraggioso”. Un esteta, dice di sé, io aggiungerei un esteta divertito e divertente, perché l’esito delle sue scelte lessicali e linguistiche è sempre, almeno per me, la sensazione di un’estrema leggerezza. Sono scelte che ubbidiscono ad una necessità di precisione (portata a volte vicino al limite della pedanteria), unita ad un’evidente predilezione per i termini insoliti, per i preziosismi linguistici, per i giochi di parole e all’arguzia nell’abbinare segni a significati. Chi si può permettere tutto ciò, può anche permettersi di utilizzare il dialetto come forma espressiva e caratterizzante di uno dei protagonisti e di sostenere questa scelta linguistica per tutto il romanzo (tranne nell’agghiacciante scena finale…), senza mai cadere nella pesantezza o nell’artificiosità, “perché non ci dobbiamo preoccupare della storia delle cose e delle parole, dobbiamo usarle solo per il nostro comodo”.

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Alessandra
10 years ago

Bellissima recensione, complimenti.