La lirica di Ingeborg Bachmann. Interpretazioni – a cura di Luigi Reitani – Cosmopoli
Nel novembre del 1993 l’Università degli Studi di Udine, in collaborazione con l’Istituto Austriaco di Cultura di Milano, organizza un convegno dal titolo “La notte deve voltar pagina. La lirica di Ingeborg Bachmann”. La maggior parte dei contributi raccolti nel presente volume nasce proprio in quella occasione. Ogni saggio è incentrato su una singola poesia della Bachmann e il volume si presenta complessivamente come una proposta di lettura di diciassette diverse liriche, articolata secondo l’ordine cronologico della pubblicazione dei testi e attuata da diciassette studiosi diversi (tra gli italiani, Giorgio Manacorda, Maria Teresa Mandalari, Luigi Reitani, Antonella Gargano, Giuseppe Dolei e Fabrizio Cambi). La silloge è arricchita da una introduzione del curatore, Luigi Reitani, dal testo – in lingua e in traduzione – di ogni lirica, da un ricchissimo apparato di note e citazioni – anch’esse tradotte – e si conclude con una Cronologia della vita e delle opere di Ingeborg Bachmann e con una accuratissima Bibliografia.
Quasi tutte le liriche qui presentate sono tratte dalle uniche due raccolte pubblicate dall’autrice, “Il tempo dilazionato” (1953) e “Invocazione all’Orsa Maggiore” (1956). E’ noto agli estimatori della poetessa il gesto radicale con cui ella si congedò dalla lirica già nei primi anni Sessanta, gesto che è, già da solo, un importante indicatore della sua rigorosa personalità poetica. In un’intervista del 1963, riportata nel volume “In cerca di frasi vere”, la Bachmann afferma: “Ho smesso di scrivere poesie nel momento in cui mi colse il sospetto di essere sempre in grado di scrivere poesie, anche quando non ci fosse la necessità di scriverne alcuna”. La Bachmann cessa quindi un’attività poetica che sembra aperta e destinata a una rigogliosa fioritura e continua poi, per tutta la vita, ad esprimere le tematiche portanti del suo mondo lirico, passando alla prosa dei racconti e al ciclo delle “Todesarten” (“Modi per morire”). Così nessuna nuova raccolta si affianca ai due volumi di versi precedentemente pubblicati, proprio in nome di una sorta di istanza etica, l’idea di una poesia “necessaria come il pane”, “una poesia che dovrà essere affilata di conoscenza e amara di nostalgia se vorrà scuotere l’uomo dal suo sonno. Dormiamo infatti, dormiamo per paura di dover percepire il mondo intorno a noi”, come l’autrice stessa afferma nelle sue “Lezioni di Francoforte”. Nel saggio “Spostamento” che nel presente volume Giorgio Manacorda dedica alla lirica “Thema und Variation” (“Tema e variazione”), le poesie della Bachmann vengono definite “dolmen onirici” e “petrose concrezioni dell’inconscio”. Questo perché sono fatte di versi che sembrano accostati come pietre, senza comporre alcun mosaico, senza mai pacificarsi in un’immagine complessiva evidente e perciò rassicurante. Hanno il potere di turbare il lettore e di procrastinare all’infinito con la loro apparente oscurità la spiegazione del disagio che suscitano, per poi inaspettatamente illuminarsi in improvvisi lampi lirici. E’ evidente già ad una prima lettura l’urgenza da cui nasce una poesia che non può certo definirsi aggraziata, ma che è “toccata da una grazia che scaturisce, imprevista e imprevedibile, dalla forza di immagini grezze, non poetiche, messe lì sulla pagina come macigni”. La Bachmann non scava alla ricerca di gemme e pietre preziose, ma scardina l’ordine letterario che ha ereditato e ricomincia, procedendo per tentativi, a mettere in relazione tra loro quelle immagini aspre e petrose che ha trovato dentro di sé. Non c’è mai nulla di lieve e di cantabile nei suoi versi, ma c’è sempre qualcosa che si riconosce come primitivo, essenziale e necessario. Ho voluto partire dalle parole con cui Manacorda introduce il suo saggio perché sono quelle che meglio esprimono i motivi della mia predilezione per i versi bachmanniani, versi pericolosi e arditi, che costringono ad aprire gli occhi, versi fatti di conflitti, movimenti, variazioni e fughe, fatti delle cose più basilari, di pane, vino, terra e sangue, ma anche così ricchi di suggestioni letterarie che riconoscerle e interpretarle è per il lettore quasi una sfida. Ben consapevole dell’importanza di ognuno dei diciassette saggi che compongono il volume per l’approfondimento della poetica dell’autrice, riporto a linee essenziali ciò che, come semplice lettrice, ritengo illuminante nell’approccio alla sua opera. Il linguaggio è il movente decisivo dell’arte poetica della Bachmann, o meglio, il rifiuto della presunta univocità e ovvietà del convenzionale uso linguistico che la poetessa rifugge, considerandolo sintomo di indifferenza e di pigrizia e quindi nemico del pensiero. Da qui quel continuo esercizio di affinamento linguistico a cui si deve quel velo di mistero che pervade i suoi versi e che nemmeno la più attenta e puntuale revisione interpretativa riesce del tutto a disperdere – segreto forse della loro stessa vitalità e inesauribilità semantica: “Quel nostro sogno di espressione che non sarà mai compiutamente realizzato”, “… una lingua che intuiamo e che mai riusciamo a possedere appieno”, si legge nelle “Lezioni di Francoforte”. Ciò appare evidente se si prende in considerazione la strumentazione metaforica utilizzata dalla poetessa: la Bachmann si serve delle metafore come elementi dissonanti e non come ornamento della retorica, le costruisce attingendo al campo semantico della natura che le fornisce oggetti, spunti e vocaboli, ma la relazione con le immagini finali disorienta la percezione e la indirizza verso altri ambiti del reale. Ecco perché i costrutti metaforici che affollano i suoi versi sconcertano il lettore, hanno un effetto straniante e quindi provocatorio. Le immagini e le parole, non più vincolate a luoghi e contesti, si distaccano dalle connotazioni tradizionali, dando a questi versi un carattere sovversivo e negando all’io lirico qualsiasi tipo di rifugio. La Bachmann non costruisce un sistema di simboli interpretabile univocamente, gioca liberamente con il patrimonio di immagini che la tradizione letteraria le fornisce, ma solo il contesto determina di volta in volta il loro significato. Nei suoi versi è dominante la presenza di un io poetico, una soggettività preponderante, in un certo senso invasiva, che si trova in una perenne condizione di pericolo (il pericolo in cui viene a trovarsi la persona che si accosta al proprio ambiente in veste di poeta). Per lei tutto diventa importante, i più banali oggetti quotidiani si trasformano in meravigliose emanazioni di un senso arcano. Ma lo stato d’animo che ne deriva non è la confortevole percezione di un’armonia prestabilita: l’io poetico si scontra sempre con una realtà avvertita come estranea, ma non si chiude, anzi, sollecita un io lettore affinchè cerchi e segua autonomamente le tracce sparse nel testo. I versi della Bachmann hanno infatti spesso un carattere allocutorio ed esortativo, contengono un appello a un mutamento delle condizioni dell’essere, anche se lo scopo di tale cambiamento rimane inespresso. Sono un’esortazione ad agire, a reagire, a salvarsi, nella speranza di iniziare una nuova vita, anche se il cammino da seguire è confuso e la meta incerta. Il loro tono a volte diventa persino profetico ed oracolare nell’esprimere un oscuro presagio di morte e nel cantare l’eroismo di un io lirico che resiste a un destino non voluto. Un ruolo dominante in queste poesie è rivestito dal motivo della partenza, del commiato e del viaggio. Il soggetto lirico che si dispone ad intraprendere un viaggio si espone al fascino ma anche al pericolo dell’avventura. Chi parte si espone al brivido dell’ignoto che lo spaventa e lo attrae al tempo stesso in un intrecciarsi di seduzione, di paura e anche di nostalgia e rimpianto per ciò che lascia, perché in realtà la partenza è un esilio. Viaggio come metafora quindi dell’impossibilità del soggetto di fissare la propria dimora, di mettere radici, della sofferenza di un io intimamente lacerato dai propri sentimenti. Ma la struttura dei versi della Bachmann è contrappuntistica e bipolare e quindi alla violenza del trauma che spinge alla fuga si contrappone l’utopica speranza in una trascendenza lontana, con l’ingresso in un ambito semantico caratterizzato da elementi connotativi quali il cambiamento, la dinamicità e la speranza nel futuro. Un consapevole utopismo che fa parte di un preciso programma poetico: “La poesia, per assolvere la sua funzione utopica, deve saper suscitare l’insonnia e il dolore, ma deve anche sapersi trasformare in musica”, e ancora: “nel rapporto dialettico tra il possibile e l’impossibile ampliamo le nostre possibilità” (da “Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte”). Non c’è mai staticità in questi versi, tutto è in perpetuo movimento e trasformazione, infiniti paesaggi si alternano davanti agli occhi del lettore, paesaggi cittadini ma, molto più spesso, contadini, colti nella loro arcaicità fatta anche di ritualità e magia. In nessuna delle sue opere la Bachmann si mostra però interessata a rendere naturalisticamente o impressionisticamente l’atmosfera di un luogo. La topografia ha per lei una valenza simbolica e i veri viaggi sono quelli che conducono il lettore nei luoghi letterari. Arriviamo così alla tradizione culturale a cui così tanto attinge la Bachmann: la Bibbia, le fiabe dei Grimm, tutta la mitologia antica, Trakl, Brecht, Celan, Rilke, Baudelaire, Pascal, Holderlin, Hofmannsthal e persino il nostro Carlo Levi, ma l’elenco potrebbe continuare all’infinito perché, come afferma Reitani nell’introduzione al volume, l’intera opera della Bachmann è “un mutevole ordito” la cui complessità deriva dalle relazioni che si stabiliscono al suo interno con altri testi e opere, in una fitta rete di riferimenti. Forse perché “dove la parola è minacciata, con la sua capacità di denominare lo spaventoso, inizia il ricorso al materiale mitologico e letterario della tradizione che, impiegato contro il cratere del silenzio, preserva dal mutismo” (Johann Sonnleitner, “Allegorie della storia lirica”, saggio sulla lirica “Mezzogiorno precoce”).