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letteratura norvegese

JON FOSSE, “Melancholia”, Fandango libri

Traduzione e Postfazione di Cristina Falcinella

“[..] era un mattino piovoso a Oslo e Vidme entrò nelle sale della Galleria Nazionale e poi notò un dipinto che lo attirava e poi ecco Vidme lì in piedi a guardare un dipinto del pittore Lars Hertervig, s’intitola “Dall’isola di Borg” e lo scrittore Vidme rimase in piedi davanti a quel quadro, un giorno, verso la fine degli anni Ottanta, lo scrittore Vidme rimase in piedi davanti a un quadro del pittore Lars Hertervig e proprio in quell’occasione, un pomeriggio di pioggia a Oslo, Vidme ebbe l’esperienza più forte della sua vita. Sì, lui l’ha vissuta così. L’esperienza più forte della sua vita. E se dovesse fare un commento su come fu, non saprebbe fare di meglio che dire che gli si sollevò la pelle e gli vennero le lacrime agli occhi.”

Nel 2009 Fandango libri pubblica in Italia “Melancholia” di Jon Fosse, lo scrittore e drammaturgo norvegese insignito nel 2023 del Premio Nobel per la Letteratura, a riprova della lungimiranza delle piccole case editrici e della loro capacità di far conoscere ai lettori italiani autori di pregio del panorama internazionale. Ora i romanzi maggiori di Fosse si possono trovare facilmente, pubblicati da La nave di Teseo, e alcune delle sue opere teatrali più importanti – molte delle quali sono state rappresentate anche in Italia – sono state pubblicate già nel 2006 nella raccolta “Teatro” da Editoria & Spettacolo. Per la poesia si dovrà aspettare, ma non credo molto, data la notorietà che il Nobel ha, meritatamente, regalato a Fosse anche nel nostro paese. 

La raccolta “Teatro” risulta preziosa anche per la Prefazione e l’Intervista a Jon Fosse scritte da Rodolfo di Giammarco, che aiutano il lettore ad orientarsi in una scrittura torrenziale e frammentaria nello stesso tempo, che trascina grazie al suo ritmo e alla sua natura ipnotica e personalissima: “Il drammaturgo, romanziere e poeta norvegese Jon Fosse”, scrive di Giammarco nella Prefazione, “è il più anaffettivo degli scrittori di teatro degli ultimi decenni, il più laconico, il più seriale, il più chirurgico, il più emblematico di un ritorno al mare, alla morte e all’amore”, parole che benché si riferiscano ai testi teatrali, risultano anche utilissime per poter apprezzare al meglio una prosa in cui i confini tra i generi – teatro, romanzo, poesia – non sono poi così chiaramente delimitati.

Nell’intervista, alla domanda “Che senso dà alla parola e che peso dà al silenzio?”, Fosse risponde: “Sono uno scrittore fortemente critico della lingua. Intendo dire che le cose più importanti non possono essere dette (né in un dialogo espresso con il linguaggio quotidiano, né con quello concettuale) e proprio in questo consiste la mia arte poetica: dire l’indicibile”. Un’affermazione che richiama immediatamente alla mente i saggi radiofonici di Ingeborg Bachmann (pubblicati da Adelphi in Italia proprio con il titolo “Il dicibile e l’indicibile”) su Musil, Wittgenstein, Simone Weil e Proust, e al bisogno della poetessa di andare costantemente alla ricerca di frasi vere per liberare il linguaggio dagli stereotipi e dai luoghi comuni che lo rendono abusato, consumato dall’uso eccessivo e, in definitiva, falso. Fosse continua: “.. nei romanzi cerco di raggiungere il punto dove le parole non hanno più significato – nel loro senso comune – attraverso una sovrabbondanza di parole, mentre nei drammi mi avvalgo di pause, di interruzioni per rivelare ciò che voglio sia rivelato: si deve scrivere ciò che non si può dire”.

Proprio per riuscire a dire l’indicibile che si nasconde nella psiche di un uomo affetto da una malattia mentale ma toccato dalla grazie dell’arte, Fosse scrive questo romanzo, che in realtà potrebbe essere considerato un dittico, essendo composto da due parti, (cosa usuale per l’autore e ricorrente anche in alcune delle sue opere principali), come testimonia anche il titolo originale del romanzo, “Melancholia I II”. Ripartizioni che rimandano in qualche modo agli atti di una rappresentazione teatrale, differenziati nel tempo e in parte dal soggetto che di volta in volta tiene la scena.

La  melancholia è “il male della bile nera”, la malattia dell’anima che viene diagnosticata , come scrive Cristina Falcinella nella Postfazione, al pittore romantico norvegese Lars Hertervig – uno dei più grandi nomi della pittura norvegese e nordica ottocentesca – al momento del suo ricovero nel manicomio di Gaustad, nei pressi di Christiania (l’attuale Oslo). Oggi forse sarebbe diagnosticata come schizofrenia, ma la melancholia che dà il titolo al romanzo non ha tanto a che fare con la malattia, quanto con la capacità che alcuni grandi artisti possiedono di vedere e di comunicare tramite la loro arte il lato oscuro che si cela dietro la bellezza. Uno stretto rapporto ideale lega Fosse a Lars Hertervig, di cui lo scrittore si dichiara lontano parente, fatto da una ammirazione per i suoi oli su tela che travalica il puro gusto estetico e sconfina nell’immedesimazione e nel riconoscimento, nella scoperta di una affinità nel modo di sentire e di vedere, al di là dei limiti imposti dalla ragione. Un modo comune di lasciarsi assorbire dalla luce – quella del mare, dei fiordi e delle isole della loro patria – fino al punto di scorgere il buio che essa preannuncia o camuffa agli occhi di chi possiede la facoltà, o la dannazione, di vedere troppo.

Ecco allora per Fosse la necessità di rendere omaggio con la sua scrittura ad un pittore tanto amato o forse anche di far comprendere la grandezza della sua arte, riscatto di una vita disgraziata, segnata dalla malattia mentale, dall’incomprensione, dal dileggio e dalla crudeltà di chi non poteva o non voleva capirlo. Ne nasce un romanzo dove biografia e autobiografia si accavallano, dove i monologhi di Lars e dell’anziana sorella Oline (personaggio fittizio nato dall’immaginazione dell’autore) tengono gran parte della  scena, intervallati dalla comparsa dello scrittore Vidme, personificazione dello stesso autore, che si dibatte in una sorta di crisi spirituale nel momento in cui si accinge ad iniziare il suo romanzo su Lars Hertervig  e sui segreti umani che si nascondono nelle nuvole che dipingeva, e dopo essere rimasto soggiogato e stregato nella Galleria Nazionale di Oslo dal quadro “Dall’isola di Borg”, a tal punto da riconsiderare il suo rapporto con il divino e il suo convinto ateismo: “Vidme si è immaginato tutte quelle persone confuse che hanno cercato un senso alla propria vita dicendo che è il volere di Dio e che succederà questo e quello, perché il buio è stato pesante, il vento forte, l’amore è stato, come sempre, a metà tra uccidere l’altro e preoccuparsi per l’altro, il mare è stato troppo duro, i parti ancora più duri e sopra tutto quanto c’era un enorme cielo. Il mare blu e il cielo blu. Il buio fitto e il vento sibilante. E poi una chiesa, una casa di preghiera sulle montagne. Un cimitero sotto la pioggia nell’oscurità. E ci deve pur essere un senso in tutto questo”.

Leggendo si ha l’impressione che la luce sia la chiave del romanzo, così come lo è nei quadri del pittore: una luce intensa ma morente, una luce autunnale – le sezioni che compongono il romanzo sono perlopiù ambientate nelle ore serali di un tardo autunno – che ha in sé qualcosa di malinconico e struggente per il lento declinare che sottintende, la stessa luce che illumina il dipinto “Dall’isola di Borg”, che la Fandango libri ripropone in copertina: un chiarore che preannuncia l’avanzare delle tenebre, un cielo azzurro minacciato da un ammasso di nuvole, un mare cristallizzato in un’immota calma surreale. E’ la forte impressione che suscita in lui la luce di questi quadri che spinge Fosse a rielaborare con la sua scrittura alcuni episodi della biografia di Hertervig, ad immaginarne altri, ad entrare nella sua vita, nella sua mente malata, nella sua insopprimibile necessità di dipingere. Per farlo, dà voce allo stesso Lars, scegliendo la forma del monologo e mettendo la sua scrittura al servizio dei deliri, delle angosce e delle improvvise esaltazioni del pittore, alla perenne ricerca della luce, minacciato dalla dannazione del buio. La stessa scrittura di Fosse è un delirio di parole e di reiterazioni che procedono ad un ritmo folle che conquista il lettore, o meglio, lo imprigionano, come spiega la traduttrice: “Marcatori del ritmo sono le ripetizioni ossessive, la paratassi martellante, le variazioni sul tema [..] a volte minime ma incisive, le pause, le ellissi, l’alternanza delle lunghezze di parole e frasi, la circolarità autoreferenziale degli assoli interiori, in crescendo fino all’implosione [..] Ne scaturisce una scrittura che si avvolge su se stessa assorbendo il lettore nella sua voragine monomaniacale di costrutti che ritornano e alludono, s’inabissano e poi riemergono, rendendo impossibile distinguere la linea che delimita la soggettività malata dall’oggettività del reale, se ne esiste una”.

Forse in questa scelta linguistica ed espressiva ritorna la forte vocazione teatrale dell’autore che permette a Lars di tenere a lungo la scena, di parlare a ruota libera, di delirare e di esplicitare il suo mondo così difficile, così stravolto e incomprensibile per ogni consesso umano in cui si trova a vivere, ma nonostante tutto ancorato ad un unico punto fermo, la sua capacità di dipingere paesaggi illuminati dalla grazia e pervasi da una accorata malinconia. Fosse si pone al servizio di tutto questo, con il suo romanzo si propone di dire l’indicibile, di tradurre in parole i paesaggi di Lars e di far parlare i movimenti delle sue nuvole. Di cercare la luce attraverso l’oscurità del dolore: “Io non ho fatto niente di male. Io guardo le nuvole, io dipingo quadri. Io guardo la luce. Sono in grado di dipingere qualunque cosa, se solo avessi i colori buoni abbastanza. Io vedo tutto. Io vedo la luce, in ogni cosa. Io so dipingere”.

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