VITALIANO TREVISAN – “Shorts” – Einaudi
“Da chi, da che cosa sono dunque posseduto?, mi chiesi ancora aprendo la finestra.”
Vediamo allora, se si può, per quel tanto che si può, di provare a dare una risposta a questa domanda, nel tentativo, anche, di capire le ragioni di una predilezione, la mia, per questo autore. Bernhard, prima di tutto. Sì, perché non si scrive sul vuoto e non si legge sul vuoto. Non esiste una tabula rasa sulla quale dal nulla compaiono le parole, le frasi, i testi che pretendono di essere scritti o che sono destinati a permanere nella memoria del lettore, finendo per determinare un’inclinazione, un gusto letterario e, quindi, anche le future letture. Ho iniziato a leggere Trevisan per via di un riconoscimento nella comune ammirazione per Thomas Bernhard e ho imparato ad apprezzare la sua voce energica, ironica e tagliente, sia nella prosa che nei testi teatrali, tanto sorprendente in quanto distante dalla voce omologata e prevedibile di tanti autori italiani contemporanei. “Shorts” rappresenta per me una felice riconferma. Da chi e da che cosa è posseduto Vitaliano Trevisan mentre scrive questi racconti? Indubbiamente dal suo maestro, indubbiamente, in particolare, da quella produzione di prose brevi del drammaturgo austriaco, forse meno conosciute, ma nelle quali si trovano, distillati e come ulteriormente purificati, i temi della sua opera.
“Siamo preparati a tutto a braccia aperte”
Essere ebreo, povero e tedesco, e vivere gli anni della propria maturazione intellettuale nel difficilissimo periodo del primo dopoguerra, assistere con lucida consapevolezza alla inarrestabile ascesa politica del nazismo, spegnersi infine un anno dopo la nomina di Hitler a cancelliere del Reich, prevedendo i cupi scenari che si andavano preparando per la Germania e per il mondo e portando con sé il dolore di non aver potuto pubblicare il suo ultimo romanzo nella sua patria, perché nessuna casa editrice tedesca era disposta ad accettare l’opera di un autore di origine ebraica. Questa è stata la sorte di uno scrittore, nonostante tutto, molto prolifico, apprezzato e amato da tanti grandi intellettuali a lui contemporanei, ma di lui molto più noti. Suo amico, estimatore e nume tutelare, Thomas Mann, affida ad una sorta di necrologio , lo scritto “Un saluto a Jakob Wassermann”, non solo l’espressione dei suoi sentimenti per l’amico, ma anche una indicazione di lettura, semplice ed efficace, il punto di vista da cui partire per apprezzare la sua opera: “Chi o che cosa è Jakob Wassermann? Un narratore. Egli è innanzitutto nient’altro che questo. Un favoleggiatore di sangue e d’istinto, nessun altro tra noi è come lui. Talvolta gli ho detto, scherzando, che potrebbe starsene seduto, a gambe incrociate, sulla riva degli Schiavoni, o in qualche mercato orientale, e narrare – narrare – e la gente starebbe attorno a lui ad ascoltarlo, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata”. Ebbene, credo che nessuna delle opere di Wassermann corrisponda maggiormente – per struttura, ambientazione, personaggi – all’osservazione di Thomas Mann, del romanzo “Il tumulto intorno allo Junker Ernst”.
“E non si muta forse in metafora ogni cosa
“Orazio, quando tu guardi la candida Luna, come puoi dire che non sia Ella a guardare te?”
“Eppure non aveva mai il pensiero che osservassero lui di persona, lui che passava in quel punto a capo chino, o si inginocchiava presso un garofano per legarlo con un filo di rafia, o si curvava sotto i rami; ma gli pareva che guardassero l’intera sua vita, la sostanza più profonda del suo essere, quella sua incomprensibile insufficienza umana”.
“Tutto sarà scritto. E tutto sarà scritto così come deve essere scritto”
“Adesso invece, se pure [le ombre dei morti] potessero ritornare e davvero ritornassero, non sarebbero più un conforto per noi. Perfino le ombre più care si aggirerebbero sconsolate in questo tempo profanato – o basta già invecchiare per rimanere profanati noi pure? Anzi forse, se ci scorgessero, si deciderebbero anch’esse, piangendo e gemendo, a fare quel che il tempo già fa: distruggerci”.
Difficile scegliere una sola delle motivazioni che rendono questo saggio – in realtà una raccolta di saggi – di Jakobson fondamentale per chi ama la poesia russa del primo Novecento. C’è innanzitutto la notorietà del suo autore, il suo ruolo preminente negli studi di linguistica e di semiotica, il suo fondamentale contributo alla nascita del formalismo russo e dello strutturalismo e il conseguente interesse per il lettore contemporaneo che, in queste pagine, ha il privilegio di assistere al modo in cui lo studioso delle strutture della lingua è in grado di affascinare, comunicando la sua passione per la parola poetica. C’è lo splendido titolo, che, con la semplice enunciazione di tre parole, racchiude il senso della raccolta, una ricerca appassionata ma anche intellettualmente rigorosa e articolata, sull’essenza della poesia. “Russia”, innanzitutto, perché Jakobson, che negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione ha preso parte al movimento poetico e artistico dell’avanguardia russa, raccolto intorno al Circolo di Mosca, è convinto che nel primo trentennio del Novecento “la poesia ribelle creata dall’avanguardia russa ha trasformato il verso nella sua essenza, nella sonorità e nel lessico”. “Follia”, perché, come essa rifiuta la funzione dialogica del linguaggio, così la grande poesia si rivela pienamente nella sua essenza monologante e, infine, “Poesia”, perché, afferma Jakobson, “se la prosa è un’invenzione, il canto, come dice un antico proverbio russo, è la verità”.