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letteratura polacca

“Il diario di Dawid Rubinowicz”

“Il diario di Dawid Rubinowicz” – Einaudi

“Siamo preparati a tutto a braccia aperte”

La sorte ha voluto che Dawid Rubinowicz nascesse in Polonia, nel distretto di Radom e che avesse undici anni nel 1940. La sorte ha voluto che assistesse nei due anni successivi allo stillicidio di discriminazioni, imposizioni e violenze culminate col trasferimento della popolazione ebraica del distretto nel campo di concentramento di Treblinka e, quindi, col suo annientamento. Il fatto che Dawid avesse l’attitudine, e l’abitudine, alla scrittura non dipende però dalla sorte, ma dalle sue personali inclinazioni, dalla conformazione, irripetibile, della sua personalità. Una scrittura da ragazzino, legata ai fatti e, forse, al bisogno di riordinarli, guidata da una sorta di innata diligenza. In alcuni punti viene addirittura il dubbio che, almeno all’inizio, questo diario sia nato come compito scolastico. Non è un caso se la testimonianza più completa su Dawid rimane quella della sua maestra, che ne fa un ritratto semplice, del tutto privo di ogni intento sentimentale o celebrativo, solo soffuso di una inevitabile malinconia: “Era un bimbo curioso, io lo ricordo benissimo. Biondo, con gli occhi azzurri: bellino, un po’ smarrito. Biondo come un tedesco. Se voleva poteva salvarsi: ma era molto attaccato ai suoi, non voleva mai lasciarli. Veniva a scuola come tutti gli altri. Ho in mente il suo berrettino di pezza, la borsetta legata dietro la schiena. I bambini da noi vanno a scuola così. Sono bambini di campagna: figli di contadini, di piccoli mercanti di bestiame, di boscaioli. Avevo quattro scolari ebrei. Non c’era nessuna differenza fra gli scolari polacchi, prima della guerra. Spariti, tutti spariti. Dawid era molto educato, ricordo. Nei suoi esercizi di composizione c’erano sempre delle osservazioni strane. Il gracchiare dei corvi gli metteva paura, gli facevano paura i topi che rosicchiavano le barbabietole nelle greppie delle stalle. Si ricorda, nel diario, l’episodio della volpe? Che bambino strano. Era bravo a scrivere e a fare i conti. Una sola volta l’ho visto triste: piangeva. Fu quando gli dissi che i tedeschi avevano proibito ai ragazzi ebrei di frequentare le scuole. Lo trovai in un angolo del cortile, appartato. Guardava gli altri giocare, si sentiva solo, lo avevano escluso”. Un bambino ebreo, bravo a scrivere,  in un povero villaggio della campagna polacca, in piena guerra, in quegli anni durissimi, è un bambino “strano”, che fa “osservazioni strane”.

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letteratura tedesca

Wassermann, “Il tumulto intorno allo Junker Ernst”

JAKOB WASSERMANN – “Il tumulto intorno allo Junker Ernst” – Sellerio

Essere ebreo, povero e tedesco, e vivere gli anni della propria maturazione intellettuale nel difficilissimo periodo del primo dopoguerra, assistere con lucida consapevolezza alla inarrestabile ascesa politica del nazismo, spegnersi infine un anno dopo la nomina di Hitler a cancelliere del Reich, prevedendo i cupi scenari che si andavano preparando per la Germania e per il mondo e portando con sé il dolore di non aver potuto pubblicare il suo ultimo romanzo nella sua patria, perché nessuna casa editrice tedesca era disposta ad accettare l’opera di un autore di origine ebraica. Questa è stata la sorte di uno scrittore, nonostante tutto, molto prolifico, apprezzato e amato da tanti grandi intellettuali a lui contemporanei, ma di lui molto più noti. Suo amico, estimatore e nume tutelare, Thomas Mann, affida ad una sorta di necrologio , lo scritto “Un saluto a Jakob Wassermann”, non solo l’espressione dei suoi sentimenti per l’amico, ma anche una indicazione di lettura, semplice ed efficace, il punto di vista da cui partire per apprezzare la sua opera: “Chi o che cosa è Jakob Wassermann? Un narratore. Egli è innanzitutto nient’altro che questo. Un favoleggiatore di sangue e d’istinto, nessun altro tra noi è come lui. Talvolta gli ho detto, scherzando, che potrebbe starsene seduto, a gambe incrociate, sulla riva degli Schiavoni, o in qualche mercato orientale, e narrare – narrare – e la gente starebbe attorno a lui ad ascoltarlo, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata”. Ebbene, credo che nessuna delle opere di Wassermann corrisponda maggiormente – per struttura, ambientazione, personaggi – all’osservazione di Thomas Mann, del romanzo “Il tumulto intorno allo Junker Ernst”.

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letteratura austriaca

Von Hofmannsthal, “L’uomo difficile”

HUGO VON HOFMANNSTHAL – “L’uomo difficile” – Rusconi

“… come una volta avevo visto in una lente di ingrandimento una zona della pelle del mio mignolo, e mi era parsa una pianura con solchi e buche, così ora mi accadeva con gli uomini e le loro azioni. Non riuscivo più a coglierli con lo sguardo semplificatore dell’abitudine. Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto. Una per una, le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi, che mi fissavano e nei quali io a mia volta dovevo appuntare lo sguardo. Sono vortici, che a guardarli io sprofondo con un senso di capogiro, che turbinano senza sosta, e oltre i quali si approda nel vuoto”. E’ un brano tratto dalla “Lettera di Lord Chandos” e lo scrive un giovane nobile dell’epoca elisabettiana, per spiegare a Francis Bacon, suo maestro e guida spirituale e intellettuale, i motivi della sua rinuncia all’attività letteraria.

 “Ma tutto ciò che si dice è indecente. Il semplice fatto che si dica qualcosa è indecente. E quando lo si prende sul serio, mio caro Aldo, ma le persone non prendono nulla al mondo sul serio, c’è addirittura una certa impudenza nel fatto che si osi vivere certe cose! Per esperire certe cose e non trovarsi indecenti occorre un così folle amore per se stessi e un tale grado di cecità che da persone adulte si può forse conservare nell’angolo più intimo di sé, ma non confessarlo!”. E’ una delle battute finali della commedia “L’uomo difficile” e la pronuncia il protagonista, Hans Karl Buhl, un ricco scapolo di mezza età, appartenente alla aristocrazia viennese, appena rientrato, in licenza, dalle prime linee della I guerra mondiale.

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letteratura austriaca

Von Hofmannsthal, “Ieri”

HUGO VON HOFMANNSTHAL – “Ieri” – Edizioni Studio Tesi

“E non si muta forse in metafora ogni cosa
per dare voce ai nostri tormenti e alle nostre gioie?”

“Ieri” (“Gestern”) rappresenta l’esordio drammatico del giovanissimo Von Hofmannsthal, che lo compone nel 1891, a diciassette anni. L’anno precedente erano già apparse le sue prime poesie, firmate con lo pseudonimo Loris Melikov, perché a quel tempo, a Vienna, ai ginnasiali non era permesso pubblicare e Hofmannsthal frequentava l’Akademisches Gymnasium della capitale imperiale. Sono queste prime opere ad attirare su di lui l’attenzione dei giovani intellettuali che, di lì a poco, daranno vita al gruppo della “Jung-Wien”, Schnitzler, Beer-Hofmann, Salten, Bahr, George, e che il giovane scrittore avrà occasione di conoscere, frequentando il Cafè Griensteidl, il punto d’incontro della nuova generazione di letterati viennesi. A questo gruppo si unirà più tardi anche Stefan Zweig che, nel suo libro “Il mondo di ieri”, vero e proprio breviario viennese e insieme autobiografia intellettuale nonché racconto dell’epopea della “Felix Austria”, dà testimonianza dell’apparizione del giovane poeta e drammaturgo nel fervido ambiente culturale della Vienna di fine secolo. Zweig riporta le impressioni e i ricordi di Scnitzler, allora considerato il capo della “Giovane Vienna”, relativi al suo primo incontro con Von Hofmannsthal. Su richiesta del ragazzo, viene organizzata una serata durante la quale egli legge la sua opera teatrale in versi (proprio “Ieri”). Tutti si aspettano di sentire uno dei soliti componimenti teatrali da studente, sentimentale e pseudiclassico. Hofmannsthal si presenta in calzoni corti, nervoso e intimidito e comincia a leggere. Ecco cosa racconta Zweig: “Dopo alcuni minuti – mi narrava Schnitzler – ci facemmo attenti e cominciammo a scambiarci sguardi stupiti, quasi atterriti. Non avevamo mai udito da un vivente versi di tale perfezione, di tale plasticità impeccabile, di tale fluidità musicale; anzi dopo Goethe non li avevamo quasi ritenuti possibili. Ma ancor più mirabile di questa maestria della forma, unica e non più raggiunta da alcuno nella lingua tedesca, era la conoscenza del mondo, la quale in un ragazzo che passava la giornata sui banchi di scuola, non poteva venire che da una magica intuizione. […] Io, mi disse Schnitzler, avevo la sensazione di avere incontrato per la prima volta un genio nato e mai in tutta la mia vita l’ho sentito così fortemente”. Un ragazzo prodigio, quindi. Inutile dire che ben presto questo poeta “puro e sublime” diventa punto di riferimento della giovane generazione viennese.

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letteratura italiana

Mari, “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti”

MICHELE MARI – “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti” – cavallo di ferro

“Orazio, quando tu guardi la candida Luna, come puoi dire che non sia Ella a guardare te?”

Le pagine di questo libro sono comprese, accompagnate e custodite da un’epigrafe e da una quarta di copertina dense di rimandi significativi, soprattutto per un lettore che, come nel mio caso, le attendeva da molto tempo, pregustando il momento dell’incontro. L’antico proverbio boemo riportato in epigrafe (“Se incontri il lupo, prendilo per fratello, perché egli conosce la foresta”), oltre a generare un senso di familiarità e di riconoscimento per l’inaspettata comparsa della terra boema, dove certo non mi aspettavo di trovarla, con tutta la sua capacità di addomesticare l’orrore decantandolo nella quotidianità, dà anche una immediata direzione alle aspettative, perché predispone mentalmente ad associare il verso leopardiano del titolo alla licantropia, alla metamorfosi, alle leggende legate all’orrore della trasformazione e della perdità dell’identità. Tutto ciò suscita anche una certa curiosità nei confronti dell’esito narrativo di una materia che appare a prima vista inusuale, azzardata e, trattandosi di Leopardi, ad un passo dalla dissacrazione. Ma la quarta di copertina è affollata di numi tutelari, rassicura e predispone favorevolmente. Manganelli definisce questo libro un “capriccio”, associandolo al valore musicale e passionale della parola, presentandolo quindi come una piccola opera riconoscibile, definibile dal suo carattere di compiutezza e di leggerezza, che si distende nello spazio così labile che si apre tra la sperimentazione linguistica e lo scavo esistenziale, tra il gioco erudito e l’introspezione.

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letteratura austriaca

Von Hofmannsthal, “La mela d’oro e altri racconti”

HUGO VON HOFMANNSTHAL – “La mela d’oro e altri racconti” – Adelphi

“Eppure non aveva mai il pensiero che osservassero lui di persona, lui che passava in quel punto a capo chino, o si inginocchiava presso un garofano per legarlo con un filo di rafia, o si curvava sotto i rami; ma gli pareva che guardassero l’intera sua vita, la sostanza più profonda del suo essere, quella sua incomprensibile insufficienza umana”.

“Eravamo di una trionfale tristezza”, e questo “noi” indica quel gruppo di giovani intellettuali che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, al lento chiudersi di un’epoca, avvertono “l’anima di questa Vienna che forse vibra per l’ultima volta”. Trovo citate queste belle parole di Hofmannsthal nella sezione a lui dedicata del ponderoso e illuminante volume di Ferruccio Masini “Gli schiavi di Efesto. L’avventura degli scrittori tedeschi del Novecento”. E trovo questa espressione perfetta per sintetizzare, in modo però estremamente allusivo, l’impressione suscitata nel lettore da questi nove racconti giovanili di Hofmannsthal. Un autore che appare già colto e raffinato quando, poco più che adolescente, scrive il primo di questi racconti, “Giustizia” – ma precocissima è comunque anche la sua vocazione teatrale. Difficile definire questi testi, per i quali le usurate categorie di genere risultano poco significative; in queste pagine lo scrittore va componendo una fitta trama di allegorie, favole, paesaggi, presagi lirici, riflessioni e divinazioni, che costituiscono il primo passo dell’ininterrotta evoluzione della sua opera, sostanzialmente unitaria, dove novelle, drammi, commedie, romanzi e libretti musicali contengono echi e rimandi che li collegano l’uno all’altro.

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letteratura russa

Otrosenko, “Testimonianze inattendibili”

VLADISLAV OTROSENKO – “Testimonianze inattendibili” – Voland

“Tutto sarà scritto. E tutto sarà scritto così come deve essere scritto”

Prima di tutto uno sguardo alla produzione di questo prosatore russo contemporaneo, vivente, in piena attività e, per fortuna, autore di opere tradotte in italiano e agevolmente reperibili. Si tratta di tre raccolte di racconti, ognuna costituita in realtà da vari episodi di uno stesso intreccio narrativo, in cui ogni testo rimanda in modo più o meno chiaro, attraverso tratti evidenti e rimandi a volte accuratamente nascosti, a tutti gli altri. La prima, “Il cortile del bisnonno Grisa”, è stata pubblicata in italiano nel 2004 insieme all’ultima opera dell’autore, “Didascalie a foto d’epoca”, mentre “Testimonianze inattendibili” si colloca cronologicamente tra le altre due. Otrosenko è un russo del sud, proviene dalla steppa attraversata dal fiume Don, prossimo alla sua foce. E’ nato a Novocerkassk, l’antica capitale dei cosacchi, il centro del Distretto dell’Armata del Don della Russia zarista e prerivoluzionaria. Questa è la terra in cui sono geograficamente ambientate le storie che racconta, è da qui che si dipartono e qui ritornano, questa terra è l’unico punto di stabilità nell’incrocio spesso non districabile di versioni contradditorie, di invenzioni, di testimonianze inattendibili, appunto, di cui sono fatte.

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letteratura austriaca

Lernet-Holenia, “Il Conte di Saint-Germain”

ALEXANDER LERNET-HOLENIA – “Il Conte di Saint-Germain” – Adelphi

“Adesso invece, se pure [le ombre dei morti] potessero ritornare e davvero ritornassero, non sarebbero più un conforto per noi. Perfino le ombre più care si aggirerebbero sconsolate in questo tempo profanato – o basta già invecchiare per rimanere profanati noi pure? Anzi forse, se ci scorgessero, si deciderebbero anch’esse, piangendo e gemendo, a fare quel che il tempo già fa: distruggerci”.

C’è qualcosa di peggio che perdere i punti di riferimento della propria vita, la mappa del proprio mondo, le certezze che parevano indiscutibili e immutabili, ed è perdere tutto ciò una seconda volta, e affrontare, di nuovo, il dramma dello spaesamento. Se infatti la perdita originaria provoca smarrimento, rimpianto e nostalgia, la seconda, per questo ben più grave e definitiva, è madre della disillusione e del disincanto. Ma la grande letteratura sa impadronirsi dello smarrimento soffuso di nostalgia e del più cinico disincanto, li declina nelle loro mille sfaccettature, dà loro carne e sangue, volti e accadmenti e, soprattutto, li rende sopportabili e persino esaltanti, perché li affida alla parola che, quando è grande stile, consola, anche se dà voce al dolore. Tutto ciò per dire che la cifra di questo romanzo, il disincanto appunto, mi appare il contraltare di quel bellissimo canto d’addio al mondo asburgico che è “Lo stendardo”. “Il Conte di Saint-Germain” rappresenta l’irrompere dell’irrazionalità, del sogno, dell’imponderabile, nella vita del protagonista, Philipp Branis, e in tutto ciò che costituisce il mondo dell’aristocrazia e dell’alta borghesia viennese tra i due avvenimenti salienti della storia austriaca del Novecento, le due tappe della dissoluzione di una patria: la fine dell’Impero nel 1918 e l’Anschluss alla Germania nazista nel 1938.

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letteratura russa

Jakobson, “Russia Follia Poesia”

ROMAN JAKOBSON – “Russia Follia Poesia” – GUIDA

Difficile scegliere una sola delle motivazioni che rendono questo saggio – in realtà una raccolta di saggi – di Jakobson fondamentale per chi ama la poesia russa del primo Novecento. C’è innanzitutto la notorietà del suo autore, il suo ruolo preminente negli studi di linguistica e di semiotica, il suo fondamentale contributo alla nascita del formalismo russo e dello strutturalismo e il conseguente interesse per il lettore contemporaneo che, in queste pagine, ha il privilegio di assistere al modo in cui lo studioso delle strutture della lingua è in grado di affascinare, comunicando la sua passione per la parola poetica. C’è lo splendido titolo, che, con la semplice enunciazione di tre parole, racchiude il senso della raccolta, una ricerca appassionata ma anche intellettualmente rigorosa e articolata, sull’essenza della poesia. “Russia”, innanzitutto, perché Jakobson, che negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione ha preso parte al movimento poetico e artistico dell’avanguardia russa, raccolto intorno al Circolo di Mosca, è convinto che nel primo trentennio del Novecento “la poesia ribelle creata dall’avanguardia russa ha trasformato il verso nella sua essenza, nella sonorità e nel lessico”. “Follia”, perché, come essa rifiuta la funzione dialogica del linguaggio, così la grande poesia si rivela pienamente nella sua essenza monologante e, infine, “Poesia”, perché, afferma Jakobson, “se la prosa è un’invenzione, il canto, come dice un antico proverbio russo, è la verità”.

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letteratura svizzera

Muschg, “Storie d’amore”

ADOLF MUSCHG – “Storie d’amore” – Marcos y Marcos

Parafrasando il titolo di un famoso libro di Carver, mi chiedo: di cosa parla Muschg quando parla d’amore? Una domanda più che legittima, perché ho già potuto conoscere la scrittura di questo autore leggendo i nove racconti che costituiscono l’altro suo unico libro disponibile in traduzione italiana, la raccolta intitolata “L’impiccato”, e sono quindi consapevole che, come suggerisce Magris, chi incontra Muschg deve essere pronto a compiere insieme a lui “spedizioni in continenti inquietanti”, salti in nuove dimensioni, dove “assolutezza esistenziale” e “ambiguità fantastica” si legano in un nodo inestricabile. Bisogna quindi avvicinarsi con cautela a queste sette storie, definite da un titolo così inoffensivo, che appare addirittura un po’ ironico; inoffensivo e a suo modo tranquillizzante, perché allude a quella infinita serie e varietà di accadimenti e di situazioni di cui la vita e la letteratura rendono esperti o, comunque, consapevoli. Bene, nessuno di questi racconti parla di amore nel senso tradizionale del termine: sono perfette macchine narrative, taglienti e inospitali, prive di angoli in cui il lettore possa riposare cullato da una parvenza di riconoscimento. Sono pagine che interrogano e che provocano la necessità della rilettura, perché bisogna inoltrarsi almeno una seconda volta in un terreno sconosciuto per iniziare, se non a comprenderne tutti gli aspetti, almeno a coglierne la bellezza. Sono sette racconti magnifici e il fatto che siano stati scritti circa vent’anni prima de “L’impiccato” la dice lunga sulla grandezza di questo autore, considerato a ragione l’erede di Durrenmatt e di Frisch.