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Lernet-Holenia, “Il Conte di Saint-Germain”

ALEXANDER LERNET-HOLENIA – “Il Conte di Saint-Germain” – Adelphi

“Adesso invece, se pure [le ombre dei morti] potessero ritornare e davvero ritornassero, non sarebbero più un conforto per noi. Perfino le ombre più care si aggirerebbero sconsolate in questo tempo profanato – o basta già invecchiare per rimanere profanati noi pure? Anzi forse, se ci scorgessero, si deciderebbero anch’esse, piangendo e gemendo, a fare quel che il tempo già fa: distruggerci”.

C’è qualcosa di peggio che perdere i punti di riferimento della propria vita, la mappa del proprio mondo, le certezze che parevano indiscutibili e immutabili, ed è perdere tutto ciò una seconda volta, e affrontare, di nuovo, il dramma dello spaesamento. Se infatti la perdita originaria provoca smarrimento, rimpianto e nostalgia, la seconda, per questo ben più grave e definitiva, è madre della disillusione e del disincanto. Ma la grande letteratura sa impadronirsi dello smarrimento soffuso di nostalgia e del più cinico disincanto, li declina nelle loro mille sfaccettature, dà loro carne e sangue, volti e accadmenti e, soprattutto, li rende sopportabili e persino esaltanti, perché li affida alla parola che, quando è grande stile, consola, anche se dà voce al dolore. Tutto ciò per dire che la cifra di questo romanzo, il disincanto appunto, mi appare il contraltare di quel bellissimo canto d’addio al mondo asburgico che è “Lo stendardo”. “Il Conte di Saint-Germain” rappresenta l’irrompere dell’irrazionalità, del sogno, dell’imponderabile, nella vita del protagonista, Philipp Branis, e in tutto ciò che costituisce il mondo dell’aristocrazia e dell’alta borghesia viennese tra i due avvenimenti salienti della storia austriaca del Novecento, le due tappe della dissoluzione di una patria: la fine dell’Impero nel 1918 e l’Anschluss alla Germania nazista nel 1938.

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Lernet-Holenia, “Lo stendardo”

ALEXANDER LERNET-HOLENIA – “Lo stendardo” – Adelphi

Nato nel 1897 e morto nel 1976, Lernet-Holenia ha avuto l’opportunità di essere consapevole testimone del tramonto dell’impero e della nascita del mito asburgico, di quella sua sopravvivenza nella memoria, nel ricordo e nella nostalgia che ha regalato alla letteratura mitteleuropea tante opere di inestimabile valore. La fine di un mondo ha il potere di racchiudere in sé, quasi miracolosamente illuminato, reso tangibile nella sua essenza, depurato da ogni orpello esteriore, ciò di cui era costituito, di fissare per sempre i suoi lineamenti, di renderli immediatamente riconoscibili. Non stupisce quindi il fatto di ritrovare tutto ciò nel romanzo “Lo stendardo”, opera del 1934, perché, come afferma Magris nel suo ricchissimo e fondamentale saggio “Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna”, “Il mito asburgico, lungi dal morire con la fine dell’Impero, sembra anzi avere iniziato con questa la sua più suggestiva e interessante stagione”, d’altra parte il mito non si nutre certo di una realtà oggettiva, ma di memoria e di nostalgia, affidate alla parola. La grande tradizione della narrativa austriaca del Novecento appare permeata, definita e, addirittura sconvolta da una trasformazione così radicale di tutta una civiltà, dal passaggio dalla sicurezza e dall’ordine, alla scoperta del disordine del mondo.

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