CYNGYZ AJTMATOV – “Il battello bianco” – Studio Tesi
La liricità e la sacralità della natura, l’infanzia solitaria di un bambino che deve cercare di decifrare la realtà e di sopravvivere coltivando i suoi sogni, la lotta epica tra il male e il bene, la giustizia e l’ingiustizia, il compiersi inevitabile della tragedia. Una materia difficile, scivolosa, da trattare con attenzione, che potrebbe trasformarsi in una storia patetica e moraleggiante. Ma non nelle mani di uno scrittore russo (in realtà nato in Kirghisia, quando faceva parte dell’Unione Sovietica) che indicava come suoi maestri Tolstoj, Cechov, Bunin, Gor’kij, Majakovskij, Solokov, Tvardovskij. Nelle sue mani, l’intimità e la solennità coincidono, la prosa diventa poesia.
Borislav Pekic è uno dei più importanti e prolifici scrittori serbi del Novecento. Danilo Kis, suo coetaneo e amico, gli ha dedicato una delle biografie che compongono il suo romanzo “Una tomba per Boris Davidovic”. A sua volta, Pecik gli ha dedicato il romanzo “Come placare il vampiro”, una discesa nell’inferno del totalitarismo e nelle esperienze più tragiche e fosche dell’Olocausto. Una considerazione sconsolata: dell’immensa produzione di Pekic, tradotta in quasi tutte le lingue europee, solo due romanzi sono apparsi in Italia: “Come placare il vampiro”, nel 1993 e “Il tempo dei miracoli”, nel 2004. Entrambi i libri sono introvabili. Devo questa copia ad un utente della rete che, non avendo interesse per il libro, invece di buttarlo, l’ha messo in vendita (opera meritoria che permette ai capolavori di restare in vita e di circolare).
“… ho letto Strindberg. Non lo leggo per leggerlo, ma per posare la testa sul suo petto. Egli mi tiene come un bambino sul braccio sinistro. Vi sto seduto come un uomo su una statua. Dieci volte in pericolo di scivolar giù, all’undicesimo tentativo siedo saldamente, sono sicuro, e ho un ampio orizzonte.” (Franz Kafka, “Diari”)
“Vi è stato un istante, in cui ho avvertito che non esistono nè gioie nè sofferenze – no, ci sono soltanto smorfie di piacere e di cordoglio; ridiamo e piangiamo e invitiamo la nostra mente ad unirvisi.”
Lena ha il viso liscio e puro come una mela fresca.
“Senza storie e senza raccontare storie non si può vivere, ma le storie sono bugie.” (Claudio Magris)
Chiudendo il difficile cerchio dell’armonia.
Leggo Stifter e penso a Walser, leggo Walser e penso a Bernhard. Si comincia a camminare in un paesaggio armonioso e rassicurante che sembra tutto comprendere e tutto rispecchiare, si continua senza mai fermarsi perchè ciò che sta fuori deve sostituire quello zero tondo e in definitiva inconsistente che si porta dentro, si prosegue fino all’orlo dell’abisso perchè camminare vuol dire portare in giro il delirio lucido, la variazione infinita, l’esistenza che soccombe e che riversa se stessa in un paesaggio che si fa atroce e malato. Ma il paesaggio è solo un occasione, il viaggio è interiore e le pagine di questi tre autori sono miracolosa letteratura.
“Ogni morte ha la sua risata”
Affascinata da “La morte a Reval”, speravo di ritrovare in questo romanzo la voce di Bergengruen. Ho trovato un romanzo strano, un giallo con un impianto teatrale e una struttura argomentativa su un tema di tutto rispetto, soprattutto se consideriamo che è stato scritto in Germania nel 1935: i rapporti tra il potere e il male. Una sorta di saggio, anche profondo e articolato, che ha però reso l’impianto narrativo artificioso e, in ultima analisi, non necessario.