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letteratura tedesca

Hans Erich Nossack, “La fine. Amburgo 1943”

HANS ERICH NOSSACK – La fine. Amburgo 1943 – il Mulino

“Mi sento incaricato di darne conto. Non chiedetemi perché ne parlo, con presunzione, come di una sorta di mandato: non so rispondere. Ho la sensazione che la bocca mi resterebbe serrata per sempre se prima non portassi a termine questo incarico. E sento anche l’urgenza di farlo sin d’ora. Sono trascorsi appena tre mesi, ma poiché la ragione non riuscirà mai a comprendere ciò che è accaduto in termini di realtà, né a conservarlo nella memoria, temo che tutto possa pian piano svanire come un brutto sogno”.

E’ merito di Sebald – uno dei tanti meriti di Sebald – aver fatto riemergere dall’oblio le pagine autobiografiche di Nossack sul bombardamento di Amburgo, pubblicate per la prima volta nel 1948, presentandole, insieme a “L’angelo tacque” di Heinrich Boll, all’interno delle sue lezioni di poetica, tenute nel 1997 a Zurigo e utilizzate successivamente per la realizzazione della sua bellissima “Storia naturale della distruzione. Guerra aerea e letteratura”. L’intento di Sebald, affermato nella Premessa al volume, è quello di avviare una riflessione intorno alle motivazioni per cui quasi nessuno scrittore tedesco ha raccontato in modo esteso nelle sue opere la devastazione che si è abbattuta sulle città della sua nazione negli ultimi anni della II guerra mondiale, le motivazioni per cui “l’esperienza di un’umiliazione nazionale senza precedenti, vissuta da milioni di persone […] non abbia mai trovato modo di esprimersi a parole”, di riflettere sul fatto che non sia stato ancora scritto “il grande romanzo epico tedesco sulla guerra e sul dopoguerra”. Come se la cultura tedesca fosse rimasta vittima di una amnesia collettiva, oppure di una sorta di meccanismo di rimozione, così che “le immagini di un capitolo tanto terribile della nostra storia” – afferma Sebald – “non hanno mai varcato, in fondo, la soglia della coscienza”.

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letteratura tedesca

Hans Erich Nossack, “Spirale. Romanzo di una notte insonne”

HANS ERICH NOSSACK – Spirale. Romanzo di una notte insonne – Feltrinelli

“Ho un’invincibile ripugnanza per la story… Quando un sasso cade nell’acqua mi affascinano gli anelli che si formano, non soltanto sulla superficie, ma anche sotto, e anche nell’aria che la sovrasta. Anelli che non cessano mai di riprodursi, anche quando il fatto è da tempo dimenticato”.

E’ questa dichiarazione di Nossack – riportata da Hans Bender nel suo saggio “La prosa tedesca dopo il ‘45”, che introduce la raccolta “19 nuovi scrittori tedeschi”, edita da Feltrinelli nel lontano 1962 – la chiave che rende più agevole l’accesso ad un’opera che già a partire dal titolo dichiara il suo essere sui generis per quanto attiene alla tipologia testuale, alla concatenazione degli eventi e alla loro collocazione temporale. A ben vedere, forse, il romanzo a cui Nossack allude nel titolo è tutto racchiuso, e concluso, nella sua breve prefazione al testo, perché qui – e solo qui – egli fa riferimento ad un evento, peraltro vago, che ha reso l’uomo, protagonista dell’opera e voce dominante di ogni sua parte, insonne. Sono sempre queste brevi righe a tratteggiare la cornice notturna, ad alludere ad una lotta per la conquista del sonno e a suggerire, infine, la reale portata simbolica di quella spirale che etichetta e insieme interpreta tutte le pagine che racchiude. “Tuttavia, ogni volta che la spirale dei suoi pensieri sta per avvolgersi nel sonno, urta contro nuovi detriti della sua vita e, di nuovo, risale nella luce spietata e ambigua dell’insonnia”. La spirale, dunque, è la traiettoria lungo la quale si snoda il pensiero del protagonista, potentemente onnipresente nelle pagine del romanzo, un pensiero che “si giudica, si assolve, si difende e cerca di concedere a se stesso la grazia per trovare, finalmente, la pace”. Nossack si cimenta in una prosa speculativa che appare decisamente parca nel concedersi alla “story”, o meglio, che lascia al lettore il compito di andare a ritrovare nel testo le tracce – che pure esistono – dello svolgimento romanzesco, ed è invece accuratissima, volutamente insistente e quasi ridondante, nel riprodurre un’altra trama, più sottile e sfuggente, fatta di allusioni e suggerimenti, labile, inafferrabile, ma totalmente libera dall’assoggettamento a regole e leggi esterne a se stessa, la trama in cui l’io, a diversi gradi e momenti di consapevolezza, è costantemente immerso e in cui spesso è costretto, vanamente, a dibattersi.

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letteratura argentina

Roberto Arlt, “Le belve”

ROBERTO ARLT – Le belve – Savelli Editori

“Non potrò mai spiegarti come sono andato precipitando giorno dopo giorno tra gli uomini perduti, ladri e assassini e donne con la pelle del viso più ruvida della calce crepata. A volte, quando considero gli abissi a cui sono arrivato, sento nel mio cervello agitarsi grandi teli di ombra, cammino come sonnambulo e il processo della mia decomposizione mi sembra incastonato nell’architettura di un sogno mai avvenuto”.

Inizio da questi racconti – e in particolare dagli splendidi “Ester Primavera” e “Le belve” – il mio avvicinamento all’opera di Roberto Arlt, al “calore tragico” della sua opera, per riprendere un’espressione di Goffredo Fofi, citata da Grazia Cherchi in un articolo apparso su “L’Unità” nel dicembre 1993 (contenuto in “Scompartimento per lettori e taciturni”). Inizio sulla scorta delle suggestioni e delle sollecitazioni a cui una ormai assestata e convinta predilezione per la letteratura onettiana quasi mi obbligano. Inizio, sostanzialmente, per un bisogno di condivisione, per il tentativo – e non può essere che solo questo – di risalire a quelle radici letterarie, a quelle atmosfere, a quei ritmi narrativi, a quell’aura, impasto di colori, movimenti e sospensioni, che Onetti deve aver respirato e dai quali la sua penna deve essersi ispirata. E, come sempre avviene durante queste ricerche, quello che alla fine si trova, più che spiegare, apre nuove prospettive. In questo caso, su quella letteratura argentina del Novecento che sempre più mi appare affine e imparentata alla letteratura europea del secolo scorso, radicata in profondità nello stesso ricchissimo humus di cui quest’ultima si nutre.

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letteratura americana

Louis Wolfson, “Mia madre musicista è morta…”

LOUIS WOLFSON – Mia madre musicista è morta di malattia maligna a mezzanotte tra martedì e mercoledì nella metà di maggio mille977 nel mortifero Memorial di Manhattan – Einaudi

(I Greci dicevano che la più grande fortuna che possa capitare a un uomo è non essere nato! [E questa fortuna capita costantemente a una infinità di persone, che avrebbero potuto essere concepite, nate, se… Ma questa infinità non soddisfa, perché lascia numerosissime eccezioni…! {Che cosa strana: l’esistenza, l’inesistenza!!}])

Una mente schizofrenica – una grande mente schizofrenica – una lunga e terribile malattia, seguita scrupolosamente, senza remissione, approssimazione o remora di sorta, una morte inevitabile come evento finale e insieme giustificazione e motivazione alla scrittura: sono questi gli elementi costitutivi di un testo che si può, a ragione, definire apocalittico. Perché ciò che Wolfson si augura, desidera ardentemente, prefigura, è la fine del mondo, a partire da se stesso e dal proprio vissuto, l’estinzione della propria origine. Inevitabile, entro questa logica, l’attacco, non alla propria madre, ma all’idea stessa della sacralità della madre, vista come prima responsabile della nascita. Inevitabile la scelta di cogliere la valenza simbolica della malattia mortale della propria madre e di seguirla, accompagnarla e descriverla con l’interesse attento dello studioso. E tutto ciò non ha nulla a che vedere con il sentimento che dovrebbe legare un figlio alla propria madre, o alla mancanza dello stesso. La scrittura di Wolfson prescinde dal sentimento, o meglio, è del tutto estranea alla sfera sentimentale; è una scrittura strettamente consequenziale alla esasperata razionalità di un mondo personale alternativo, che è altro rispetto al comune sentire ed anche al comune pensare, che si è creato i propri punti di equilibrio e ad essi si attiene, consapevole delle proprie peculiari aspirazioni, dei sintomi, sempre in agguato, delle proprie nevrosi, e delle strategie da mettere in atto per tenerli a bada.

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letteratura italiana

Romano Bilenchi, “Conservatorio di Santa Teresa”

ROMANO BILENCHI – Conservatorio di Santa Teresa – BUR

“Anche Santa Teresa con i suoi cortili silenziosi sfumava dolcemente nel suo ricordo. Immaginò di essersi definitivamente staccato da tutte le vicende che avevano formato la sua vita fino ad allora. Credette che senza di lui tutte quelle persone, gli alberi, gli stessi edifici nei quali viveva e che gli erano familiari avrebbero vissuto un’esistenza migliore e più libera”.

“Conservatorio di Santa Teresa” è un libro denso, densissimo; ogni suo capitolo possiede un peso specifico tale che lo rende illusoriamente ben più esteso dei tempi narrativi che lo delimitano e indispensabile nell’economia del romanzo, per quell’accumularsi di avventure della percezione che –  al di là dell’intreccio – ne costituiscono la sostanza. Avventure della percezione e non della crescita, perché ciò che rende avvincente questo romanzo – che pure ripercorre il passaggio dall’infanzia all’adolescenza del giovane protagonista – non sono gli accadimenti, ma il continuo, ininterrotto accumularsi di sensazioni, le infinite e mutevoli reazioni che, con una intensità e una frequenza esasperante ma al contempo affascinante, il contatto con il mondo esterno provoca nell’animo del protagonista, componendo nella sua memoria interiore, straordinariamente recettiva, un disegno sempre più complesso, confuso e contraddittorio. Bilenchi costringe il lettore a seguire questo percorso che è denso di scarti improvvisi, colpi di scena, soluzioni impreviste, di tutto ciò che si potrebbe definire avventura, se non fosse tutto chiuso all’interno di un’anima – e un’anima bambina – che è una sorta di tabula rasa che va rapidamente accumulando tutto ciò che dovrebbe servirle a farsi un’idea coerente e rassicurante del mondo, ma che in realtà contribuisce ad una sempre più raffinata esperienza di una irriducibile estraneità.

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letteratura italiana

Anna Maria Ortese, “Il cardillo addolorato”

ANNA MARIA ORTESE – Il cardillo addolorato – Adelphi

il-cardillo-addolorato“Ma vi è un dolore, nel cuore di certuni… un pianto che non si acquieta così presto… anzi mai, credetemi; e così vi dico: separare donna Elmina dal suo dolore è cosa quasi impossibile. Non lo tentate. Potrebbe venirne gran male. Ah, comincio a credere anch’io, uomo di pandette, incredulo circa la bontà della natura umana, alla verità di un Cardillo nascosto in questo mondo; e che la voce, e il pianto, di un Cardillo non tace mai”.

Ciò che la Ortese produce con questo suo sorprendente romanzo è una apoteosi della narrazione, una festa, generosa e ridondante, dell’intreccio. “Il cardillo addolorato” è costituito da una materia narrativa che riproduce costantemente se stessa, prolifera e lievita, costruendo certezze, parvenze di verità, che si frantumano e franano come un castello di carte un attimo prima di assestarsi nella consapevolezza del lettore e che, sotto i suoi occhi, assumono nuove forme, inaspettate e contraddittorie, in una ridda del senso che affascina, avvince e stordisce. La trama delle passioni umane, complicate, ridicole, misteriose, dolorose, e anche buffe nella loro inesausta ricerca di compimento e di senso, sembra trovare l’ambiente naturale più adatto alla sua crescita ed alla sua riproduzione e germinazione nello spazio barocco che, pagina dopo pagina, l’architettura del romanzo va delineando. Come se gli effetti ottici, il gioco effimero degli specchi, le fughe impreviste in cui si dispiegano spazi angusti, le ombre profonde e le volute pigre e sontuose che decantano ed esaltano le linee curve fossero il necessario sostegno alla visione, al sogno e a quel tanto di illusione che si confonde con la realtà, che si nasconde nella realtà, donandole una aerea e confortante leggerezza. Il lettore si trova quindi ad affrontare una costruzione narrativa che ha le sue fondamenta nella volatilità, nella fluidità e nella metamorfosi, in un terreno che confinerebbe pericolosamente con l’assurdità e l’insensatezza se non fosse l’opera di un architetto sapiente, che nutre le sue radici culturali nell’humus ricchissimo del romanticismo europeo (e in special modo tedesco), traendone suggestioni, spunti e stimoli, eleggendolo a età dell’oro dell’immaginazione e della fantasia, scegliendolo come palcoscenico privilegiato sul quale muovere i passi della sua dolorosa sensibilità.

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letteratura russa

Fëdor Dostoevskij, “L’idiota”

FEDOR DOSTOEVSKIJ – L’idiota – Einaudi

Un secolo separa il Principe Myskin di Dostoevskij dal Principe Saurau di Bernhard: “L’idiota” viene infatti composto tra il 1867 e il 1868, “Perturbamento” esce in prima edizione nel 1967. Un filo rosso li lega, li mette in rapporto, li pone uno di fronte all’altro nella loro compiutezza, in un impossibile confronto e in un altrettanto impossibile dialogo. Nati da mondi letterari lontanissimi tra di loro nel tempo e nello spazio, può accadere che essi assumano ruoli analoghi nell’esperienza di un singolo lettore, entrambi oggetto, per motivi diversi, di un analogo “esercizio di ammirazione”. Può accadere che il primo sia responsabile dell’avvio di una affezione all’universo che la letteratura schiude, del contagio di quel vizio che si potrebbe definire “assurdo”, se non si temesse l’indebita intrusione nel mondo di Pavese; e che il secondo segni per sempre la futura direzione, delimiti il territorio che sarà per sempre una vera casa letteraria, da cui partire spesso, ma alla quale, altrettanto spesso, ritornare. Da un principe all’altro, da un idiota a un folle, è lungo la strada da loro segnata che sono diventata una lettrice.

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letteratura italiana

Curzio Malaparte, “Kaputt”

CURZIO MALAPARTE – Kaputt – Adelphi

“Tutti hanno l’occhio disperato della renna. Sono bestie, penso, sono bestie selvatiche, penso con orrore. Tutti hanno nel viso e negli occhi la bellissima meravigliosa mansuetudine e tristezza delle bestie selvatiche, tutti hanno quell’assorta e malinconica pazzia delle bestie, la loro misteriosa innocenza, la loro terribile pietà. Quella pietà cristiana che hanno tutte le bestie. Le bestie sono Cristo, penso, e mi tremano le labbra, le mani mi tremano”.

“Kaputt” è un libro che si impone e si fa amare con l’imperiosità del capolavoro, ma amarlo è una fatica che richiede impegno ed abnegazione, amarlo è il premio che si ottiene alla fine di un percorso accidentato e dolorosissimo. “Kaputt” è un libro che si ama nonostante le perplessità che suscita in alcune sue pagine, nonostante le domande a cui non dà risposte, nonostante la confusa sensazione di leggere il resoconto di una immane tragedia attraverso gli occhi di un privilegiato per sorte e convenienza politica, di un potente che con i potenti ha a che fare, che soffre e di indigna per le loro colpe, maneggiando spesso l’arma spuntata del motto di spirito, tollerato e benvoluto da chi di tanto orrore è corresponsabile, capace di dosare disgusto e compassione, di camminare, senza cadere, sul filo di un instabile equilibrio. “Kaputt” è un libro che si fa amare nonostante l’irritazione e l’indignazione che sorgono spontanee nel lettore, costretto da Malaparte a sostare insieme a lui nelle stanze del potere, nei palazzi del potere di mezza Europa che, nel bel mezzo degli anni più bui della guerra, sopravvivono come isole fortunate, noncuranti dell’umana disperazione che le circonda. Nonostante tutto questo, “Kaputt” si impone, travolge sospetti e difese, costruisce con la potenza di una scrittura raffinatissima e lussureggiante, un affresco pieno di ombre, e dove le ombre si fanno più cupe, penetra e scava, con uno stile a tratti maestoso, capace di decantare l’epica dell’orrore, di suscitare disgusto per tramutarlo in pietà e di lenire il rimpianto e la nostalgia con gli accenti poetici di una umanissima tenerezza.

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letteratura austriaca

Ingeborg Bachmann, “Non conosco mondo migliore”

INGEBORG BACHMANN – Non conosco mondo migliore – Guanda

“… non vedete amici/ non lo vedete/ che dappertutto/ incomincio a scavare la mia/ mia tomba,/ anche in questa carta/ incido il mio nome e/ penso che non vorrei riposare/ ancora, che non riposerò/ mai, che/ persiste questo ferro/ nel corpo, questo pugno sul/ cranio, questa frusta/ sulla schiena…”

La storia editoriale di questa raccolta poetica è l’esito di una consapevole violazione della volontà della poetessa che non aveva destinato alla pubblicazione i testi che la compongono, una violazione perpetrata per amore, per ammirazione, per la caparbia volontà di non privare i lettori di accenti poetici – forse non del tutto rifiniti, in alcuni casi ancora in fieri, in altri già prorompenti e sospesi come grida, o gementi come sussurri – di una maturità, dolente e ferita, ma splendida nella sua capacità di domare e asservire il ritmo, di controllarlo per condurlo alla rottura ed alla esplosione, di costringere le parole ad una verità forse crudele, ma finalmente autentica, sempre sorprendente e viva, anche quando corteggia la morte. Una violazione perpetrata da Isolde Moser e da Heinz Bachmann, i fratelli della poetessa, incoraggiati in questa loro opera, di ricerca, raccolta, ricostruzione commossa a quasi trent’anni dalla morte della sorella, tra gli altri, da Hans Holler, l’autore de “La follia dell’assoluto”, un libro che è molto più di una biografia e che si configura come una vera e propria guida alla scoperta della iniziazione, della costruzione e della progressiva crescita di un intero mondo intellettuale e poetico, della formazione e dello sviluppo di quella acuta e intelligente sensibilità che ha lasciato la sua impronta anche in ognuno di questi versi, perentori, interlocutori, visionari, sofferenti fino alle soglie del pianto, drammatici e lucidi nel decantare il desiderio di autodistruzione.

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letteratura francese

René Crevel, “La morte difficile”

RENE CREVEL – La morte difficile – Einaudi

“Tutto quanto è affogato in una morbida lava e Pierre intuisce che la morte è il punto, nello spazio e nel tempo, dove confluiscono per distruggersi fra loro, a vicenda, gli sguardi, di persone, cose, istanti, luoghi, gesti, rimorsi, gioie, speranze, rabbie, urla, lacrime, risa. E ci rimane solo un buco più bianco del bianco, più nero del nero”.

“La morte difficile” è una ferita aperta e si legge con quel misto di istintiva cautela, di compassione e di impotenza che si proverebbe al cospetto della carne viva, quella di una lesione irreparabile. Una ferita che non può e, soprattutto, non vuole guarire; tanto aperta che nemmeno lo schermo della letteratura riesce in qualche modo a curare – chè questo non è mai il suo scopo – o a rendere almeno sopportabile, nonostante tutto il suo repertorio di incantamenti, trucchi, depistaggi, nonostante la fantasmagoria dei suoi giochi. “La morte difficile” è una ferita aperta su un corpo giovane, segnato all’origine da una macchia infamante che lo condanna a volerla ripetere e scontare per tutta la vita, che diventa così la difficile attesa della morte o la scelta, più facile, di anticiparla, di sceglierla.