ANTONIO PIZZUTO – “Si riparano bambole” – Bompiani
Inattesa lettrice per cui Pizzuto non ha scritto, io non lo scorderò facilmente, per parafrasare una sua frase riportata da Domenico Pinto nella Postfazione ad un libro di Arno Schmidt, a testimonianza, tra l’altro, di quanto varie e inaspettate e imprevedibili siano le strade che si aprono davanti a un lettore, quando ha la fortuna di incappare in un libro che appare a lui necessario e dal quale non potrà più prescindere nella scelta delle sue future letture. E’ così riconoscibile uno scrittore che non scrive per i suoi futuri lettori, che non si preoccupa per loro, che li ignora, anche se, forse, li considera come la sua famiglia vera che non conoscerà mai.
Zoderer ha scritto un romanzo che ha come protagonista l’estraneità, il senso della non appartenenza, l’isolamento al limite della totale segregazione, che appare tanto più irrimediabile quando viene avvertito in opposizione, in contrasto, alla socialità, alle reti di relazioni, apparentemente facili e “naturali”, in cui gli altri sembrano essere immersi. Zoderer ha scritto un romanzo che è nostalgia di quell’”heimat”, quella casa, quel luogo natìo, quel territorio in cui ci si sente a casa proprio perché vi si è nati, vi si è trascorsa l’infanzia, o vi si parla la lingua degli affetti. La protagonista di “L’italiana” sperimenta lo sradicamento di chi non possiede neppure questa nostalgia ed è in grado solo di capire razionalmente il significato dell’heimat, ma non di sentirlo emozionalmente.
“Una luce radente spianava il mare e lo sollevava nelle insenature; anche al largo esso si alzava sino a cozzare contro il cielo. Un altro mare, d’ombra, scendeva dalle catene rocciose”.
Non conoscevo Ginevra Bompiani prima di leggere questo libretto. Ora so che, oltre ad essere una raffinata scrittrice, apprezzata da Calvino e da Giorgio Agamben, è anche la fondatrice, insieme a Roberta Einaudi, della casa editrice nottetempo (alla quale, tra le altre cose, riconosco con gratitudine il merito di aver pubblicato l’epistolario Bachmann/Celan che ho da poco terminato). La Bompiani affronta il tema dell’attesa, riconoscendolo come uno degli aspetti fondamentali dell’esistenza, e dando alla sua trattazione un impianto filosofico, che ha la sua origine e i suoi punti cardine nel pensiero di Wittgenstein. Ciò che, a mio parere, rende questo libro prima di tutto leggibile anche da parte di chi non abbia una specifica preparazione filosfica e, in secondo luogo, affascinante per il lettore appassionato, è la scelta da lei compiuta, di affidare proprio alla Letteratura il compito di fornire spunti all’argomentazione dei vari passi attraverso i quali va formandosi la sua riflessione. L’autrice fornisce in questo modo al lettore l’occasione di rileggere testi noti che va via via citando, alla luce del suo specifico taglio interpretativo, e, come è stato nel mio caso, di trovare spunti interessanti per futuri percorsi di lettura.
Dopo aver letto “Fratelli” nell’edizione Sellerio, che comprende anche il racconto “L’esitazione”, e “Il custode”, con “Casa Landau” completo la conoscenza della purtroppo esigua produzione narrativa di Carmelo Samonà. (Mi restano da cercare, per completezza oltre che per necessità, il testo teatrale “Ultimo seminario” e le ultime prose “Cinque sogni”). Tre romanzi brevi ed un racconto che sono ampiamente sufficienti per rendere Samonà riconoscibile agli occhi e alla memoria del lettore, sia per tematiche ed atmosfere, che per l’impronta di una prosa linguisticamente ricca, allusiva ed evocativa. Un’opera unitaria quindi, dove situazioni, personaggi, racconto e scrittura costituiscono i lineamenti di una personalità e di uno stile originali e inconfondibili.
Ho conosciuto Adàn Zzywwurath, pseudonimo di Franco Porcarelli, per aver letto di lui e del suo libro in quella collezione ordinata e catalogata di scrittori che è “I demoni e la pasta sfoglia” di Michele Mari. Qui si parla di un talento narrativo lussuoso e di letteratura fantastica allo stato puro. L’edizione in mio possesso (il libro non è di facile reperibilità) comprende sia “Il matrimonio del mare e dell’inferno” che la raccolta di racconti “Diario della letteratura perduta”. Il romanzo si colloca all’interno della tradizione della narrativa di mare, anzi, come dice Mari, testimonia “un consenso quasi religioso ai topoi della narrativa di mare”, non solo traendo spunto dai contenuti classici dei romanzi di Conrad, Stevenson, Melville e Verne, ma ricreandone anche ambientazioni ed atmosfere. Non mancano incursioni nei territori dell’orrore che suggeriscono debiti dai mondi letterari di Poe e di Lovecraft.
“Niente è per l’uomo più difficile che guardare un albero senza amore, una campagna senza gelosia, un brandello di schiuma senza desiderio; niente gli è più alieno che l’assenza di lacerazione tra diverse specie di amore; voglie e nostalgie si contendono i suoi passi come mendicanti spagnoli appesi alle vesti; e se, con un gesto negligente, li scrolla da sé, ecco apparire all’orizzonte un nugolo di polvere (cavalieri? bufali? mulinelli?) che subito affretta il suo passo e lo trascina, innocente, verso una morte perversa”. (pag. 46)
“Me ne vado, lascio per sempre alle mie spalle tutto questo schifo cattolico democratico artigiano industriale. Lascio per sempre questo disgustoso buco di provincia, pieno solo di persone ottuse pericolose e pericolosamente malvagie”.Una società bigotta e chiusa nel proprio egoismo. Una tradizione culturale segnata dall’impronta reazionaria del cattolicesimo. Un paesaggio naturale deturpato dalla stupidità dell’uomo. Uno stile di scrittura che insiste con foga ripetitiva sulle ossessioni del protagonista di nome Thomas. Il romanzo di Vitaliano Trevisan è profondamente debitore dell’opera di Thomas Bernhard. Il Veneto descritto nel libro è parente prossimo dell’Austria “infelix” del grande scrittore di Salisburgo. E Trevisan, con la sua spietata urgenza di mettere a nudo l’insensatezza che domina le azioni dell’uomo, non ce lo fa mai rimpiangere. Dedicato a chi ha ancora voglia di un libro “scomodo”.
Antonio Tabucchi insegna Lingua e Letteratura Portoghese all’Università di Siena. Legato da un amore viscerale al Portogallo, è il maggior conoscitore, critico e traduttore dell’opera dello scrittore Fernando Pessoa, dal quale ha attinto i concetti della saudade, della finzione e degli eteronimi. Tabucchi conosce l’opera di Pessoa negli anni sessanta, durante le sessioni che frequenta alla Sorbona, ne rimane talmente affascinato che, tornato in Italia, frequenta un corso di lingua portoghese per comprendere meglio il poeta. I suoi libri e saggi sono stati tradotti in 18 paesi, compreso il Giappone. Con María José de Lancastre, sua moglie, ha tradotto in italiano molte delle opere di Fernando Pessoa, ha scritto un libro di saggi e una commedia teatrale su questo grande scrittore. Ha ottenuto il premio francese “Médicis étranger” per Nocturne indien (Notturno indiano) e il premio Campiello per Sostiene Pereira.
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