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Mari, “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti”

MICHELE MARI – “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti” – cavallo di ferro

“Orazio, quando tu guardi la candida Luna, come puoi dire che non sia Ella a guardare te?”

Le pagine di questo libro sono comprese, accompagnate e custodite da un’epigrafe e da una quarta di copertina dense di rimandi significativi, soprattutto per un lettore che, come nel mio caso, le attendeva da molto tempo, pregustando il momento dell’incontro. L’antico proverbio boemo riportato in epigrafe (“Se incontri il lupo, prendilo per fratello, perché egli conosce la foresta”), oltre a generare un senso di familiarità e di riconoscimento per l’inaspettata comparsa della terra boema, dove certo non mi aspettavo di trovarla, con tutta la sua capacità di addomesticare l’orrore decantandolo nella quotidianità, dà anche una immediata direzione alle aspettative, perché predispone mentalmente ad associare il verso leopardiano del titolo alla licantropia, alla metamorfosi, alle leggende legate all’orrore della trasformazione e della perdità dell’identità. Tutto ciò suscita anche una certa curiosità nei confronti dell’esito narrativo di una materia che appare a prima vista inusuale, azzardata e, trattandosi di Leopardi, ad un passo dalla dissacrazione. Ma la quarta di copertina è affollata di numi tutelari, rassicura e predispone favorevolmente. Manganelli definisce questo libro un “capriccio”, associandolo al valore musicale e passionale della parola, presentandolo quindi come una piccola opera riconoscibile, definibile dal suo carattere di compiutezza e di leggerezza, che si distende nello spazio così labile che si apre tra la sperimentazione linguistica e lo scavo esistenziale, tra il gioco erudito e l’introspezione.

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Pavese, “Feria d’agosto”

CESARE PAVESE – “Feria d’agosto” – Einaudi

“A quei tempi sapevo soltanto che niente comincia se non l’indomani”

I libri di Cesare Pavese hanno il colore e il sapore di una dolente familiarità, appartengono al mio vissuto di lettrice come un luogo che si è a lungo frequentato, in cui forse non si vorrebbe più tornare, ma che è destinato a rimanere per sempre come ammantato da una sorta di aura, ricca di ricordi condivisi. Difficile scordare le colline, la luna, i falò, le storie di quella folla di personaggi che sanno di terra, di fatica e di silenzi, difficile non avvertire la presenza di quel passo lungo, destinato a ripercorrere sempre le strade del ricordo, difficile non provare un cocente rimpianto per una così acuta e dolorosa intelligenza. Ci sono però due libri che hanno trasformato la mia affezione per Pavese in ammirazione, questi libri sono “Feria d’agosto” e “Dialoghi con Leucò”. In queste pagine sembra rivelarsi lo scopo del lavoro letterario di una vita, a queste pagine sembrano tendere le pur brillantissime opere precedenti; un lungo viaggio attraverso temi e storie, attraverso l’affinamento di uno stile che si è fatto via via più pensoso e riflessivo. “Feria d’agosto” è un passo in profondità, il successivo, “Dialoghi con Leucò”, già rivela la maturazione di quella prosa poetica nella quale si può intravedere la promessa di una nuova maturità, il passo successivo, il suicidio, lascia tutti orfani di quel Pavese che non conosceremo mai e la bellezza di quella prosa non fa che acuire il rimpianto.

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Mari, “Verderame”

MICHELE MARI – “Verderame” – Einaudi

“Un affabulatore maestoso”

Leggendo Mari ho sempre la rassicurante impressione di trovarmi di fronte ad un autore dotato di una sorta di magazzino letterario inesauribile a cui attingere, fatto di ricordi e di impressioni radicati e profondi, di letture, studi, cultura – illuminati, tutti, da vera passione – sicurezza e coraggio nell’utilizzo di uno stile raffinato ma, nello stesso tempo, spontaneo e assolutamente distante dall’artificiosità. A tutto questo si aggiunge, tangibile, il divertimento, quello vero di chi, scrivendo, fa ciò che ama fare. Un’impressione rassicurante per il lettore che, da una parte non è condannato a seguire sperimentazioni sterili dettate dall’ansia della novità e dell’originalità a tutti i costi e, dall’altra, sente di affidarsi a chi sa bene dove portarlo, a chi non deve trovare ogni volta qualcosa di nuovo da dire o da raccontare, perché tutto è già saldamente nelle sue mani, perché si muove in un territorio conosciuto e profondamente amato.

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Mari, “Rosso Floyd”

MICHELE MARI – “Rosso Floyd” – Einaudi

Che cosa cerco nella letteratura.

Che cosa trovo nei libri che amo.

Cerco una guida che mi conduca in territori che io da sola non riuscirei mai a raggiungere e che poi mi riporti a casa, lasciandomi però la sensazione che non ho visto tutto ciò che avrei potuto vedere, che ho assaporato solo una parte della ricchezza in cui mi sono imbattuta.

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Mari, “Filologia dell’anfibio”

MICHELE MARI – “Filologia dell’anfibio. Diario Militare” – Laterza

Ho voluto correre il rischio della lettura di questo libro di Mari. Dal mio punto di vista un rischio, perchè temevo di restare delusa, e noi lettori sappiamo quanto fa male dover ammettere che uno dei nostri scrittori preferiti (tra gli italiani contemporanei, Mari lo è per me) deve essere ridimensionato ai nostri stessi occhi. Sarebbe stata una delusione che forse non gli avrei perdonato. Ho rischiato per la promessa insita in questo titolo canzonatorio e ammiccante (solo, mi pare volutamente, smorzato dall’asettico sottotitolo). Ho ritrovato invece in queste pagine quello che di Mari mi affascina: che si tratti di letteratura, di musica, di vita, ciò che lasciano i suoi libri è una straordinaria sensazione di completezza, o meglio, di aspirazione alla completezza.

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Anonimo Triestino, “Il segreto”

ANONIMO TRIESTINO – “Il segreto” – Einaudi

Ci sono libri che racchiudono molte storie parallele: quella che raccontano, quella di chi li ha scritti e quella che ci ha permesso di arrivare fino a loro. Questo è uno di quei libri. Ho conosciuto “Il segreto” perchè Magris ne parla (in “Alfabeti”) come uno di quei libri che colpiscono “come un pugno”, associandolo ad “Auto da fè” di Canetti, a “Cime tempestose” di Bronte e a “Autobiografia di mia madre” della Kincaid, ma lo cita, in modo quasi reticente, definendolo “grande e sgradevole” e dedicandogli un unico peridodo della sua, solitamente generosa, scrittura. Il libro potrebbe essere sottotitolato: “L’autobiografia di una rinuncia”.

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Sabbatini, “Gli occhi magri”

WALTER SABBATINI – “Gli occhi magri” – CasadeiLibri Editore

L’incontro con un nuovo autore è, come tutti gli incontri, innanzitutto uno sguardo rivolto ad un viso, per prendere contatto con i suoi lineamenti, per impadronirsene in un primo colpo d’occhio, per intuire da questo primo sguardo future possibilità di comprensione. Ecco, questi lineamenti sono, nell’incontro in questione, la scrittura, la forma della scrittura, il ritmo, l’andamento dei periodi, la musicalità, la sua capacità evocativa, le soste e le accumulazioni, la protervia o la timidezza. Ci sono infinite possibilità di lineamenti e di caratteri in una scrittura.

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Cataluccio, “Vado a vedere se di là è meglio”

FRANCESCO M. CATALUCCIO – “Vado a vedere se di là è meglio” – Sellerio

Conoscevo Francesco Cataluccio per aver letto due suoi scritti: “La guerra come claustrofobia”, postfazione a “L’ospedale dei dannati” di Stanislaw Lem, e “Maturare verso l’infanzia. Introduzione a Bruno Schulz”, lo scritto che conclude l’edizione Einaudi del 2001 de “Le botteghe color cannella”, da lui curato. Ho iniziato quindi a leggere con molte aspettative questo suo libro, irresistibilmente attirata, tra l’altro, dal bellissimo sottotitolo “Quasi un breviario mitteleuropeo”. Mi sono concessa il lusso del tempo, della rilettura in itinere, perché solo dopo poche pagine mi sono resa conto di aver trovato una formidabile guida per le mie future letture, o meglio, di aver trovato colui che mi faciliterà il compito di comporle, collegarle, riordinarle in un quadro che le renderà ancora più significative.

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Cataluccio, “Chernobyl”

FRANCESCO M. CATALUCCIO – “Chernobyl” – Sellerio

Per puro caso, uno di quei casi che i lettori conoscono bene, ho letto questo libro dopo aver terminato quello straordinario documento che è “Preghiera per Chernobyl” della Aleksievic, mettendomi così nella condizione ideale per apprezzare al meglio il testo di Cataluccio. Inutile dire che sono ancora vive in me, e credo che lo resteranno ancora a lungo, le infinite suggestioni di “Vado a vedere se di là è meglio”. Ho ritrovato la voce di quella che ormai considero una guida di cui mi è agevole seguire il passo. Cataluccio unisce la passione del giornalista e la cultura dello studioso all’amore per l’Est europeo, e parla di ciò che conosce perchè in quelle terre ha abitato  a lungo, parla di Chernobyl perchè ci è stato e di radiazioni perchè in minima parte ne ha subito gli effetti.

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Pizzuto, “Si riparano bambole”

ANTONIO PIZZUTO – “Si riparano bambole” – Bompiani

Inattesa lettrice per cui Pizzuto non ha scritto, io non lo scorderò facilmente, per parafrasare una sua frase riportata da Domenico Pinto nella Postfazione ad un libro di Arno Schmidt, a testimonianza, tra l’altro, di quanto varie e inaspettate e imprevedibili siano le strade che si aprono davanti a un lettore, quando ha la fortuna di incappare in un libro che appare a lui necessario e dal quale non potrà più prescindere nella scelta delle sue future letture. E’ così riconoscibile uno scrittore che non scrive per i suoi futuri lettori, che non si preoccupa per loro, che li ignora, anche se, forse, li considera come la sua famiglia vera che non conoscerà mai.

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