JOSEPH CONRAD – “Vittoria” – TEA
Questo non è uno dei libri più famosi e conosciuti di Conrad, ma egli afferma di aver cercato di riversare in “Vittoria” l’essenza della vita più che in qualsiasi altro suo romanzo. E quindi, riemergendo dal fascino ipnotico delle atmosfere esotiche, dallo straniamento imposto dai ritmi dilazionati del racconto, dallo sconcerto provocato dalla improvvisa accelerazione con cui la tragedia, prevista e attesa fin dalle prime pagine, infine si compie, ritengo sia una forma di doveroso omaggio all’”Immenso Conrad” (la definizione è di Michele Mari) il tentativo di scoprire tale essenza, o almeno, di individuarne alcune tracce. Nel racconto “Otto scrittori” (in “Tu, sanguinosa infanzia”), sempre Mari, rivolgendosi a Conrad, dice: “Forse mi sto sbagliando, ma dalle vostre storie io credo di aver capito che se il naufragio delle illusioni è drammatico, vivere tutta la vita nell’illusione è patetico: e voi non siete uno scrittore patetico, voi siete un meraviglioso scrittore drammatico”. L’essenza della vita, quindi, come naufragio delle illusioni.
Vergogna e disonore. Che cosa è così vergognoso nella vicenda raccontata da Coetzee, che cosa è irrimediabile e imperdonabile al punto da non poter essere cancellato neppure dal più sincero pentimento? In questo bellissimo romanzo vergogna sociale e individuale si fondono, si motivano, si sostengono e, come in un circolo vizioso, non indicano una possibile via d’uscita, un’altra strada percorribile. Bisogna vergognarsi di aver creato un mondo (in questo caso il Sudafrica post-apartheid) dove vivere è pericoloso, dove bisogna difendersi dall’aspirazione alla vendetta, dall’odio atavico di chi ha ereditato il senso dell’ingiustizia e dell’oppressione dalle generazioni precedenti; bisogna vergognarsi di aver creato una società perbenista, pronta a gridare allo scandalo, che dello scandalo si nutre, che sembra godere dell’umiliazione altrui; bisogna vergognarsi dell’esistenza di tutte quelle famiglie “esemplari” che accolgono il reprobo, solo per vederlo inchinarsi di fronte alla loro perfezione con occhi attoniti e scostanti. E poi c’è lui, David Lurie. Di che cosa dovrebbe vergognarsi? Certo, di aver adescato una sua giovane studentessa. Ma dopo le prime pagine diventa sempre più evidente che per Coetzee questo episodio è solo un pretesto.
“Lasciate che mi chiami per il momento William Wilson”. Un incipit, una frase che ci porta immediatamente sull’orlo del baratro, ce lo fa intravedere, ci mostra gli esordi della somma inquietudine, del demone più terribile che si nasconde dietro ai paraventi della realtà. Poe lo fa usando con la sua solita grandissima perizia le armi del suo mestiere. Questo signore delle atmosfere, capace di graduare l’incubo, di modellare l’attesa, di suscitarlo con i suoi ritmi. Si può perdere tutto, ma non se stessi; si può provare il dolore dell’abbandono, del disprezzo, della solitudine; si può soffrire nel corpo e nell’anima, ma la sofferenza più grande è la vita priva della certezza della propria identità. Poe ci porta sull’orlo di questo baratro, non poteva farci compiere il passo successivo.
“Forse moriremo di fame. Oppure di sfinimento. Forse un diluvio sommergerà la casa. Forse saremo attaccati da insetti venuti da un pianeta sconosciuto, che ci succhieranno il midollo. Forse qualcuno verrà ad ammazzarci. Forse ci ammazzeremo tra noi. Forse vivremo ancora per molti anni e moriremo di cancro. L’unica grazia che Dio ci ha fatto, ammesso che esista, è averci nascosto il modo in cui moriremo. (Pausa) Averci fornito di immaginazione, in compenso, non è stato particolarmente caritatevole”.
“Europeana”, sottotitolo: “Breve storia del XX secolo”, opera di Patrik Ourednik, lo scrittore praghese che è anche drammaturgo, linguista e redattore di enciclopedie, è un libro raffinatissimo, intelligente, arguto e divertente che, già tradotto in almeno venti lingue, merita un’ampia diffusione nel nostro paese, se non altro per il contributo che può dare alla consapevolezza con cui i contemporanei guardano al secolo da poco terminato. L’attenzione del lettore è subito catturata dalla forma ormai quasi anacronistica scelta dall’autore: le pagine del libro costituiscono “la voce” di un tradizionale dizionario enciclopedico, con tanto di titoletti ai margini del testo per evidenziare gli argomenti trattati nei vari paragrafi e tavole fotografiche finali dotate di didascalie numerate. Ovvio quindi attendersi la completezza, quella che ci si aspetta da un sapere enciclopedico e, pagina dopo pagina, risulta sempre più evidente che davvero Ourednik è riuscito a condensare in 150 pagine di formato ridotto, in una narrazione che procede con un ritmo incalzante (geniale la scelta di non usare mai le virgole per costringere il lettore a procedere di slancio verso la fine di ogni periodo), la storia di un secolo così complesso. Quello che però conquista il lettore è ben altro.
“Gli scrittori davvero grandi sono quelli che sanno rallentare. Fermare il ritmo, dilatare il respiro, aprire dentro la frase spazi e pulsazioni inattese. Creano uno spazio sospeso che argina la morte.” (Dalla Postfazione di Andrea Raos)
Si potrebbe giudicare questo libro superfluo e non essenziale se lo si paragona alla grandezza della prosa del “Dottor Zivago” ed all’innegabile suggestione racchiusa nei versi di Pasternak. Il lettore può quindi inoltrarsi nell’opera dell’autore ed apprezzarla quanto merita, anche se privo di questo salvacondotto. Ma spesso è in ciò che a prima vista appare superfluo che si nascondono tesori inaspettati, sono quindi felice di aver letto queste pagine. Poiché, se è vero che l’opera, una volta prodotta, ha una sua vita autonoma, alla quale il lettore in qualche modo partecipa e alla quale contribuisce, è anche indubbio che per il vero appassionato di letteratura è di vitale interesse venire a conoscenza di quel vero mistero (e insieme miracolo) che è la storia della formazione di una voce poetica, dei percorsi attraverso i quali si è formata, delle passioni di cui si è nutrita, soprattutto all’origine, e degli incontri da cui ha tratto ispirazione. “Il salvacondotto” dà l’opportunità di apprendere tutto ciò dalla stessa voce di Pasternak: non si può quindi certo definire un’autobiografia nel senso più stretto del termine, quanto una riflessione pubblica, la presa di coscienza di uno scrittore che rievoca le proprie origini spirituali e culturali, e che permette ai lettori di ripercorrere insieme a lui le prime tappe del proprio percorso formativo.
Ancora un gioiellino della casa editrice :due punti, e ancora Patrik Ourednik, questa volta come curatore di un estratto dell’immenso diario di Jan Zabrana (decine di quaderni e taccuini datati e numerati ritrovati dopo la sua morte avvenuta nel 1984). Non ho bisogno di trovare le parole giuste per definire queste pagine, perché lo fa lo stesso autore, in modo assolutamente efficace, unendo allo sconforto e alla rassegnazione la levità della poesia: “Che cosa sono questi appunti, queste note a margine, queste parole prese a caso, appuntate in un quaderno come farfalle? Un’opera sospesa.” E ancora: “Queste note non sono un diario ma una diagnosi. La mia”. Zabrana è lo scrittore senza opera, che vive dolorosamente la consapevolezza di aver perduto, a causa dell’oppressione del regime comunista in Cecoslovacchia, la possibilità di scrivere.
“Ecco cosa significa l’esoterismo russo innaffiato di vodka!”
Non conoscevo Ginevra Bompiani prima di leggere questo libretto. Ora so che, oltre ad essere una raffinata scrittrice, apprezzata da Calvino e da Giorgio Agamben, è anche la fondatrice, insieme a Roberta Einaudi, della casa editrice nottetempo (alla quale, tra le altre cose, riconosco con gratitudine il merito di aver pubblicato l’epistolario Bachmann/Celan che ho da poco terminato). La Bompiani affronta il tema dell’attesa, riconoscendolo come uno degli aspetti fondamentali dell’esistenza, e dando alla sua trattazione un impianto filosofico, che ha la sua origine e i suoi punti cardine nel pensiero di Wittgenstein. Ciò che, a mio parere, rende questo libro prima di tutto leggibile anche da parte di chi non abbia una specifica preparazione filosfica e, in secondo luogo, affascinante per il lettore appassionato, è la scelta da lei compiuta, di affidare proprio alla Letteratura il compito di fornire spunti all’argomentazione dei vari passi attraverso i quali va formandosi la sua riflessione. L’autrice fornisce in questo modo al lettore l’occasione di rileggere testi noti che va via via citando, alla luce del suo specifico taglio interpretativo, e, come è stato nel mio caso, di trovare spunti interessanti per futuri percorsi di lettura.