MIKLOS RADNOTI – “Mi capirebbero le scimmie” – Donzelli
Ho letto (e riletto) queste poesie sentendo nelle orecchie l’eco di un’altra giovane voce, poco più di una promessa, ma una promessa piena di talento e di quella capacità di rendere evocative le immagini e anche le singole parole, infrante o sommerse nell’onda del verso, che è prerogativa dei grandi poeti. Ho letto Miklos Radnoti accomunandolo a Jiri Orten, creando tra loro un ponte ideale, consapevole della contemporaneità della loro esistenza, e della comune tragedia della loro prematura morte. Orten, ebreo destinato al lager e morto nei 1941 a Praga nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, sotto le ruote di un’autoambulanza tedesca, ha lasciato nel suo diario poetico, “La cosa chiamata poesia”, accanto alla naturale ansia di vita della sua giovane età, la profonda amarezza di vivere, o meglio sopravvivere, in un tempo ostile, nemico della poesia.
Stevenson scrisse questi splendidi racconti a Upolu, la principale delle isole Samoa, dove trascorse gli ultimi cinque anni della sua vita straordinaria. Gli isolani lo chiamavano “Tusitala”, il narratore di storie e lo consideravano una specie di nume tutelare. Tra queste righe si nascondono i profumi e le luci di una terra da lui amatissima e le suggestioni, i misteri, le paure ataviche e le leggende tramandate dai suoi abitanti. Prima di morire aveva più volte detto di voler essere sepolto sulla cima del Monte Vaea, il più alto dell’isola, per poter dominare dall’alto il mare che tanto amava, così gli isolani di Samoa gli tributarono un funerale che sembra tratto da uno dei suoi racconti.
Dopo aver letto “Fratelli” nell’edizione Sellerio, che comprende anche il racconto “L’esitazione”, e “Il custode”, con “Casa Landau” completo la conoscenza della purtroppo esigua produzione narrativa di Carmelo Samonà. (Mi restano da cercare, per completezza oltre che per necessità, il testo teatrale “Ultimo seminario” e le ultime prose “Cinque sogni”). Tre romanzi brevi ed un racconto che sono ampiamente sufficienti per rendere Samonà riconoscibile agli occhi e alla memoria del lettore, sia per tematiche ed atmosfere, che per l’impronta di una prosa linguisticamente ricca, allusiva ed evocativa. Un’opera unitaria quindi, dove situazioni, personaggi, racconto e scrittura costituiscono i lineamenti di una personalità e di uno stile originali e inconfondibili.
Per chi ama la letteratura ceca del Novecento, il bel saggio di Claudio Magris “Praga al quadrato”, riportato in “Alfabeti”, rappresenta una guida ricca e di agevole lettura, in grado di illuminare almeno alcuni degli aspetti di quella cultura mitteleuropea resa così affascinante e inconfondibile dal suo essere sintesi fra lo stile “autunnale e burocratico” dell’impero e la “dolente interiorità” ebraica. Magris propone una sorta di viaggio nella produzione poetica e narrativa di molti autori noti e di moltissimi meno noti di quello che chiama “il mosaico plurinazionale mitteleuropeo”, compilando una sorta di bibliografia della letteratura ceca che, pur rappresentando per il lettore italiano un’indiscutibile ricchezza, rende anche consapevoli di quanto sia difficile reperire molti di questi testi (o perchè non tradotti, o perchè non più ristampati). Personalmente sono sempre alla ricerca di questi libri e sono sempre felice quando, grazie alla rete, riesco a reperirli.
Ho conosciuto Adàn Zzywwurath, pseudonimo di Franco Porcarelli, per aver letto di lui e del suo libro in quella collezione ordinata e catalogata di scrittori che è “I demoni e la pasta sfoglia” di Michele Mari. Qui si parla di un talento narrativo lussuoso e di letteratura fantastica allo stato puro. L’edizione in mio possesso (il libro non è di facile reperibilità) comprende sia “Il matrimonio del mare e dell’inferno” che la raccolta di racconti “Diario della letteratura perduta”. Il romanzo si colloca all’interno della tradizione della narrativa di mare, anzi, come dice Mari, testimonia “un consenso quasi religioso ai topoi della narrativa di mare”, non solo traendo spunto dai contenuti classici dei romanzi di Conrad, Stevenson, Melville e Verne, ma ricreandone anche ambientazioni ed atmosfere. Non mancano incursioni nei territori dell’orrore che suggeriscono debiti dai mondi letterari di Poe e di Lovecraft.
“Niente è per l’uomo più difficile che guardare un albero senza amore, una campagna senza gelosia, un brandello di schiuma senza desiderio; niente gli è più alieno che l’assenza di lacerazione tra diverse specie di amore; voglie e nostalgie si contendono i suoi passi come mendicanti spagnoli appesi alle vesti; e se, con un gesto negligente, li scrolla da sé, ecco apparire all’orizzonte un nugolo di polvere (cavalieri? bufali? mulinelli?) che subito affretta il suo passo e lo trascina, innocente, verso una morte perversa”. (pag. 46)
Procedendo nella lettura di questo libro, mi sono tornate prepotentemente in mente le pagine di altri libri da me molto amati, le voci di altri autori che fanno parte del mio mondo letterario. Non ho naturalmente nessun indizio che possa farmi pensare che veramente Schneider abbia avuto presenti gli stessi autori o che si sia a loro ispirato. Sono solo impressioni di una lettrice. L’ambientazione della vicenda narrata in un villaggio delle Alpi austriache nei primi anni dell’Ottocento riporta inevitabilmente ai racconti che Stifter ha riunito nella raccolta “Pietre colorate”. Schneider sembra partire da quel mondo puro e innocente, perfettamente armonico, sferico, intero e bastante a se stesso, dove la creazione artistica non è altro che uno dei tanti elementi naturali di un mondo privo del male; ma, già dalla prima pagina (il romanzo inizia dall’ultimo capitolo), immerge il lettore nella cruda consapevolezza che questo mondo è destinato all’estinzione, che, letteralmente, verrà distrutto e che la storia che si accinge a narrare è cupa e terribile, che la genialità artistica non è un dono ma una maledizione. Se nei boschi di Stifter, come notava Hofmannsthal, manca la vipera del male, in quelli di Schneider la vipera è presente e nulla si salverà dalla sua lenta opera distruttiva.
Quattro stelle per deferenza nei confronti del primo volume della trilogia narrativa dal titolo “Come una lacrima nell’oceano” del grande intellettuale galiziano novecentesco che Claudio Magris inserisce a buon diritto nella sua raccolta di saggi “L’anello di Clarisse – Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna”, a fianco di scrittori del calibro di Hofmannsthal, Ibsen, Walser, Rilke, Musil, Canetti, Doderer e Singer. Mi ritengo doppiamente fortunata per essere venuta in possesso di questo volume (gli altri due che completano il ponderoso romanzo e l’altra opera narrativa dell’autore, “Gli acquaioli di Dio”, la sua trilogia autobiografica, sono ormai fuori catalogo e introvabili in traduzione italiana) e per aver potuto usufruire dello scritto di Magris come guida, a tratti illuminante, nella lettura spesso ostica di queste pagine piuttosto complesse. E’difficile valutare dal punto di vista letterario un romanzo che possiede una così forte connotazione politica. Si potrebbe dire che la degenerazione di una ideologia sia di fatto il tema portante di tutto l’impianto narrativo.
La trilogia “Lungo addio”, composta da tre romanzi brevi (“Lo scambio”, “Conclusioni provvisorie” e “Lungo addio”) costituisce una evoluzione del continuum narrativo di Trifonov che ha il suo inizio nel romanzo “La casa sul lungofiume”, l’opera più nota di uno di quegli scrittori russi degli anni ’60 che hanno testimoniato e denunciato nei loro scritti gli orrori dello stalinismo (l’autore stesso era figlio di un bolscevico vittima dei gulag staliniani). E’ quindi utile, per comprenderla pienamente, tornare a quella casa e al romanzo che la vede come simbolo, palcoscenico e protagonista. La casa sul lungofiume è un palazzo di Mosca abitato da funzionari medio-alti del partito e del governo, simbolo del terrore che caratterizzava la vita russa sotto Stalin.
“Fra cielo e terra è il regno del copri tetti. Giù in fondo il formicolio rumoroso dei viandanti sulla terra, su nell’alto i viandanti del cielo, le nuvole silenziose dal passo smisurato.”