FELIX SALTEN – “Josefine Mutzenbacher, ovvero la storia di una prostituta viennese da lei stessa narrata” – ES
Va subito precisato, per sgombrare il campo da ogni eventuale fraintendimento, che questo romanzo appartiene al genere della letteratura erotica e che, anzi, sotto molti aspetti, è un’opera di pornografia. Detto questo, provo a motivare il giudizio altamente positivo che gli ho assegnato. L’ambientazione nella Vienna di fine secolo (fine Ottocento), in pieno mito asburgico, mi ha spinto all’acquisto di un libro che ha, per me, una serie di ulteriori attrattive, diciamo così, esteriori: innanzitutto il nome dell’autore, Felix Salten (a cui devo il libro memorabile grazie al quale ho iniziato la mia “carriera” di lettrice, “Bambi”), la presenza di una postfazione, che è un vero e proprio saggio, a firma di Luigi Reitani, studioso e critico affidabilissimo e geniale, che ho imparato a conoscere nelle mie scorribande nei territori bernhardiani e, non ultima, la splendida copertina del volume che riproduce una cartolina postale della Sassonia di inizio secolo (inizio del Novecento) e che ha come soggetto una romantica bambina vestita di pizzo bianco che stringe al petto una bambola e fissa l’obiettivo con uno sguardo puro e sognante.
E’ lo stesso Hawthorne a dare un consiglio ai suoi lettori: avvicinarsi al suo romanzo “nella limpida, bruna atmosfera crepuscolare in cui fu scritto: se lo aprite alla luce del sole, potrà parervi tale e quale un volume di pagine bianche”. Chissà, forse perché, come afferma alla fine del primo capitolo, “… questo è un racconto di umana debolezza e di umano dolore” e la debolezza e il dolore hanno sempre origini e spiegazioni complesse e, forse, vanno avvertiti emozionalmente più che compresi lucidamente. Resta il fatto che le pagine di questo libro (indipendentemente dall’ora del giorno in cui lo si legge) rimangono impresse nella mente del lettore, come la lettera scarlatta sul petto di Esther Pryme.
E’ di grande conforto per il lettore aver accesso all’opera di uno scrittore russo contemporaneo (Shishkin è nato a Mosca nel 1961) che testimonia tutta la vitalità di una tradizione letteraria capace di affondare le radici nel suo glorioso passato, di utilizzarne appieno l’eredità, acquisendo contemporaneamente tutta la consapevolezza moderna del valore essenziale che la scrittura ha in se stessa, della sua capacità di essere scopo, ragione, significato e “figura” della vita. Shishkin offre in questo libro, tramite la sua struttura bipartita, un testo che si potrebbe definire di “metaletteratura”, una sorta di “metafisica della scrittura” (“Lezione di calligrafia”) e, successivamente, la sua messa in opera, la sua dimostrazione pratica, nel romanzo vero e proprio (“Memorie di Larionov”). Dalla Prefazione di Emanuela Bonacorsi apprendiamo che “Lezione di calligrafia” costituisce l’ouverture di tutta la produzione dell’autore, la sua opera prima, quella che mostra il DNA sperimentale e innovativo alla luce del quale tutti i suoi romanzi successivi, dall’apparente impianto tradizionale, vengono illuminati, acquisendo un più ampio respiro.
Non so se mi capiterà ancora di incontrare un libro di Walter De la Mare e la sua “sussurrata malìa che lascia libero accesso ai fantasmi della mente” (sembra che così Eliot definisse la sua arte), ma so che questo racconto, così ricco nella sua brevità, così intenso e insieme controllato (cosa rara), testimonianza della grande perizia del suo autore, ma anche della sua capacità di sollecitare la collaborazione del lettore, addirittura la sua presenza nell’oscurità del luogo in cui tutto ciò che è grottesco, misterioso e infine tragico si compie, non me lo dimenticherò. Dal punto di vista narrativo, De la Mare mi appare come un grande maestro nell’arte di accentuare la tensione, mediante il rinvio, la dilazione e la divagazione, nella capacità cioè di disperdere i meccanismi narrativi, di usarli come ferri del mestiere ma di tenerli celati in un magazzino che non è aperto al pubblico.
“Le cavie” è l’opera letteraria amarissima ma insieme acuta, scanzonata ed estremamente intelligente di uno scrittore del dissenso, emarginato dalla vita culturale del suo paese dopo la violenta repressione della Primavera di Praga ad opera delle truppe sovietiche. L’opera di un intellettuale e giornalista fondamentalmente politico (non a caso, dopo il crollo del regime comunista, nel 1990, ricoprirà, anche se per pochi mesi, la carica di viceministro degli Interni della Repubblica Ceca) che, nelle sue pagine, non può fare a meno di riflettere sui comportamenti dell’uomo quando, più o meno volontariamente, si trova a dover interagire con i suoi simili, che verifica tali comportamenti in situazioni diverse, che li raffigura e li descrive dopo averli osservati in modo apparentemente distaccato, senza ombra di coinvolgimento emotivo, giungendo persino a punte di perversa crudeltà.
“Quasi fosse uscita dalla nebbia, si rese d’un tratto visibile la bella nave.” Inizia così, con un incipit sincopato e maestoso questa favola marina che è dramma del destino. E il respiro si prepara ubbidiente a seguire il ritmo di un linguaggio denso e preciso, mentre la mente, l’anima e la fantasia si predispongono alla partenza per un lungo e incerto viaggio per mare. Ogni vero lettore sa bene quale sia il fascino dei romanzi ambientati sul mare, ce l’hanno insegnato Stevenson, Melville e Conrad e molti altri, ci hanno insegnato che l’avventura, quando si svolge sul mare, assume molteplici sfumature, fa vibrare le corde più nascoste dell’anima, allude alle più segrete oscurità del cuore, alle paure ancestrali, racchiude significati profondi, sollecita il senso del mistero e dell’orrore. Jahnn attinge a questa tradizione letteraria per farla sua, stravolgerla, reinterpretarla, creando una macchina narrativa a suo modo perfetta, cioè perfettamente rispondente alla sua logica interna, per iniziare a scrivere l’immensa opera della sua maturità. “La nave di legno”, pur essendo un romanzo perfettamente compiuto, rappresenta infatti il prologo della lunghissima trilogia “Fiume senza sponde” e Gustav Anias Horn, il giovane che qui vediamo immerso nello sconcerto di un’inquietante avventura giovanile, è il futuro compositore protagonista del romanzo conclusivo dell’opera di Jahnn.
“Mi hanno detto che sono pazzo. Io pensavo di essere vivo.”
Ogni volta che mi imbatto in una pagina di Stefan Zweig mi scopro nuovamente immersa nel fascino del suo stile un po’ aulico, ma innegabilmente efficace, irretita nelle sue abilissime costruzioni avvincenti di drammi interiori che agitano le anime di personaggi borghesi e agiati, senza d’altra parte apparentemente condurre a mutamenti decisivi nel loro stile di vita. Non stento allora a credere che negli anni Venti e Trenta del Novecento Zweig sia stato uno degli scrittori in lingua tedesca più conosciuti e più tradotti. Un autore brillante quindi, di successo, definito così da Ladislao Mittern nella sua “Storia della letteratura tedesca”: “Superficialissimo divulgatore, riuscì col suo stile brillante e sempre facile a essere l’autore prediletto della vastissima massa di lettori semicolti desiderosi di completare e specialmente di aggiornare la loro cultura”. Un giudizio impietoso, che trova molte voci concordi tra letterati contemporanei all’autore. Ma, innegabile, il fascino dei suoi racconti, almeno per me, rimane.
Dalla quarta di copertina, un consiglio di lettura irresistibile:
“Ogni mio racconto è uno schiaffo allo stalinismo”, così nel 1971 Varlam Salamov definiva la sua opera principale. I racconti di Kolyma sono una tragica testimonianza sui gulag sovietici, su “quello che nessun uomo dovrebbe vedere né sapere”.