ALEXANDER LERNET-HOLENIA – “Il Conte di Saint-Germain” – Adelphi
“Adesso invece, se pure [le ombre dei morti] potessero ritornare e davvero ritornassero, non sarebbero più un conforto per noi. Perfino le ombre più care si aggirerebbero sconsolate in questo tempo profanato – o basta già invecchiare per rimanere profanati noi pure? Anzi forse, se ci scorgessero, si deciderebbero anch’esse, piangendo e gemendo, a fare quel che il tempo già fa: distruggerci”.
C’è qualcosa di peggio che perdere i punti di riferimento della propria vita, la mappa del proprio mondo, le certezze che parevano indiscutibili e immutabili, ed è perdere tutto ciò una seconda volta, e affrontare, di nuovo, il dramma dello spaesamento. Se infatti la perdita originaria provoca smarrimento, rimpianto e nostalgia, la seconda, per questo ben più grave e definitiva, è madre della disillusione e del disincanto. Ma la grande letteratura sa impadronirsi dello smarrimento soffuso di nostalgia e del più cinico disincanto, li declina nelle loro mille sfaccettature, dà loro carne e sangue, volti e accadmenti e, soprattutto, li rende sopportabili e persino esaltanti, perché li affida alla parola che, quando è grande stile, consola, anche se dà voce al dolore. Tutto ciò per dire che la cifra di questo romanzo, il disincanto appunto, mi appare il contraltare di quel bellissimo canto d’addio al mondo asburgico che è “Lo stendardo”. “Il Conte di Saint-Germain” rappresenta l’irrompere dell’irrazionalità, del sogno, dell’imponderabile, nella vita del protagonista, Philipp Branis, e in tutto ciò che costituisce il mondo dell’aristocrazia e dell’alta borghesia viennese tra i due avvenimenti salienti della storia austriaca del Novecento, le due tappe della dissoluzione di una patria: la fine dell’Impero nel 1918 e l’Anschluss alla Germania nazista nel 1938.