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letteratura uruguaiana

Juan Carlos Onetti, “Il cantiere”

JUAN CARLOS ONETTI – Il cantiere – SUR

“- Che buco immondo – sputò fuori Larsen; poi scoppiò in un’unica risata, solo tra le quattro lingue di terra che formavano un incrocio, grasso, piccolo e senza meta, curvo contro gli anni che aveva vissuto a Santa Maria, contro il suo ritorno, contro le nuvole basse e compatte, contro la sfortuna”.

E’ qui che si compie il destino di Larsen e che termina l’esistenza letteraria del Raccattacadaveri, qui, in un ritorno e nella vaga ipotesi di un nuovo inizio; ma il tempo della fine è un tempo lungo, è il tempo che resta e che va riempito nell’esercizio di “vendette senza importanza”, di “sensualità senza vigore” e di “un dominio narcisista e distratto”. E’ il tempo che occorre ad Onetti per rendere Larsen l’eroe della sua personale leggenda, che di decadenza si nutre e che la decadenza affronta, accettando una sfida già persa in partenza, alla ricerca di un evento definitivo che nulla ha a che fare con il riscatto o con il prestigio sociale, ma che è legato al senso, al senso da dare agli anni affinchè, per quanto possibile, non siano irrimediabilmente morti.

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Juan Carlos Onetti, “Gli addii”

JUAN CARLOS ONETTI – Gli addii – SUR

“Quasi senza respirare, guardai la ragazza che chinava il viso sull’insieme inopportuno, furiosamente orizzontale, di scarpe, pantaloni e lenzuola. Rimase immobile, senza lacrime, accigliata, tardando a comprendere quello che io avevo scoperto vari mesi prima, la prima volta che l’uomo era entrato nel mio negozio – non aveva altro che questo e non volle condividerlo – decorosa, eterna, invincibile, mentre si preparava già, senza saperlo, a qualsiasi altra notte futura e violenta”.

Come si può percorrere il territorio dell’addio, come farlo assurgere a tema, dotarlo di svolgimento e variazioni, indulgere a soppesare ogni suo estremo passo, sia pure incerto o inconcludente, lungo la strada che conduce verso il suo compimento? Onetti lo fa costruendo, ma sarebbe meglio dire creando, l’affabulazione dell’addio, anzi degli addii, perché in queste pagine quello che si celebra – proprio come in una lenta e soffusa e raccolta cerimonia – è il distacco, da sé, dalla vita, dal passato, dai ricordi, dagli affetti, ma anche dall’infinito e ricorrente trascolorare delle luci e delle stagioni di un mondo che si va spegnendo insieme agli occhi di chi, consapevole, lo osserva. Quasi che affabulare sia l’ultima occasione concessa per sostare, ancora un po’, sul limitare, quasi che costruire una trama, rifinirne o camuffarne i meccanismi, sia un modo per prendersi beffe del tempo, segnato, e del destino, indifferente.

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Juan Carlos Onetti, “Raccattacadaveri”

JUAN CARLOS ONETTI – Raccattacadaveri – Feltrinelli

“Da uno dei tuoi cortili aver guardato/ le antiche stelle,/ dalla panchina dell’ombra aver guardato/ quelle luci disperse/ che la mia ignoranza non ha imparato a nominare/ né a ordinare in costellazioni,/ aver sentito il cerchio dell’acqua/ nella segreta cisterna,/ l’odore del gelsomino e della madreselva,/ il silenzio dell’uccello addormentato,/ l’arco dell’androne, l’umidità/- queste cose, forse, sono la poesia.” (J. L. Borges, “Il Sur”, da “Fervore di Buenos Aires”)

E’ una commedia o una tragedia (come direbbe Bernhard) quella che trascorre nel tempo di “tedio e rinuncia” che si respira a Santa Maria? Tutto è predisposto per attivare i meccanismi della commedia, tutto è predisposto per il compimento ineluttabile della tragedia. Tutto si ferma, immoto, in una promessa di adempimento, tutto oscilla tra la pietà e la nausea, tutto concorre ad irretire il lettore nello stile sinuoso e paziente della scrittura onettiana. Perché l’aria di Santa Maria frantuma le velleità e propaga il contagio della solitudine e della desolazione. Santa Maria è la terra di chi ha già vissuto e che porta impressa sul volto, nei gesti, negli sguardi, nelle parole che pronuncia, la condanna biologica alla disillusione. Santa Maria è il cortile appartato dei versi di Borges da cui guardare le stelle, la panchina all’ombra da cui fissare le luci disperse, quel luogo tanto impreciso che si può solo immaginare – o inventare – rivelato dal sussurro dell’acqua di una segreta cisterna, risvegliato dal profumo stordente del gelsomino, immerso nel silenzio dell’uccello notturno, dove la vita, se la vita deve essere data, è solo “una determinata intensità d’esistenza che occupa, si invasa nella forma della sua particolare mania, della sua particolare idiozia”. Antichi errori e premonizioni sono più veri del vero a Santa Maria, il passato e il futuro più reali del presente, il resto è solo una pietosa messinscena per chi ancora, inconsapevolmente, crede di vivere.

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Juan Carlos Onetti, “Per questa notte”

JUAN CARLOS ONETTI – Per questa notte – Feltrinelli

onetti-per-questa-nottePer questa notte languida e feroce – che si adagia sensuale su strade e vicoli della città con le sue nubi arrotondate e invade pelle e sguardi; e che interrompe i sogni e risveglia i sensi assopiti con le lame acute delle sue luci gialle – per questa notte avvolta su se stessa, che rimescola le carte e i giochi – così che nei suoi mille angoli la vittima sa di essere un carnefice e il torturatore volge al passato i suoi occhi da segugio e ripercorre i passi della sua ingiusta solitudine.

Per questa notte che vive “in attesa, sempre vuota, sempre affamata” in simbiosi con una morte presente e camuffata – che tende agguati alle finestre e assedia le stanze – isole dimesse di una vita immonda; per questa notte che spezza il respiro e le parole e “l’accecante sorriso dell’amore perduto”, notte affannata di sospetti e grida, di fughe senza meta e di abortite speranze.

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Juan Carlos Onetti, “La vita breve”

JUAN CARLOS ONETTI – La vita breve – Einaudi

“Ognuno è soltanto un momento eventuale”

Permane, alla fine di questo lungo – e travolgente e sorprendente – romanzo, una vaga nostalgia di stanze chiuse, quasi sempre notturne, con le finestre spalancate su un vento fresco e nero, o serali, con i rumori consueti delle esistenze che si ritirano. Permangono le immagini di innumerevoli oggetti che popolano questi interni, minuziosamente ripresi nelle vaghe sfumature che la luce disegna su di loro. Locali notturni, oppure uffici, camere d’albergo, caffè, ambulatori: una maestria descrittiva che si dipana con una lentezza che si fa spesso sontuosa nel delineare gli ambiti essenziali ai quali si aggrappa una narrazione che prolifera e lievita, a partire da un punto di non ritorno. Perché come si torna indietro dalla fredda constatazione che la vita – qualsiasi vita – è, o diventerà prima o poi, disperata e disperante? E come si continua a vivere con “la sicurezza indimenticabile che non c’è in nessun luogo una donna, un amico, una casa, un libro, nemmeno un vizio, che possano farmi felice”, come constata lucidamente Juan Maria Brausen, il protagonista del libro? Il romanzo di Onetti inizia dunque dove tante opere della più grande letteratura finiscono: dalla constatazione che la vita è fatta di malintesi e che non c’è via d’uscita, che la condizione più naturale per l’uomo è quella del disperato (che sia disperato puro, “incapace di innalzarsi fino all’altezza della sua prova”, oppure disperato debole e impuro, “che proclamerà la propria disperazione sistematicamente e pazientemente […] e sarà sempre in grado di creare il piccolo mondo di cui ha bisogno, sarà sempre disposto a piegarsi, ad assopirsi”, oppure disperato forte, che “sa o è convinto che nessuno potrà consolarlo”, ma che è disposto in qualsiasi momento ad “affrontare la propria disperazione, isolarla, guardarla in faccia”, secondo la onettiana, personalissima teoria della disperazione), perché non si sfugge alla disillusione, alla corruzione della malattia e della vecchiaia, alla scomparsa delle persone care o, peggio, dei sentimenti che un tempo si provavano per loro. Anche se pare che questa consapevolezza sia un dono terribile riservato ad alcuni, perché tanti invece avanzano sicuri “verso il mondo poetico, musicale e plastico del domani”.